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Afghanistan, assassinato anche Rahmani

Arsala Rahmani ha dovuto interrompere l’attività di gran cerimoniere perché è stato freddato a colpi di pistola per una delle vie di Kabul che percorreva incautamente senza scorta armata. Non gli sono bastati notorietà, rapporti trasversali con tutti gli attori del complesso puzzle afghano, né tanto meno essere membro del Consiglio di Pace che lo stesso Karzai aveva creato nel 2010 per intavolare trattative coi talebani. Questo fu l’approccio più concreto messo in atto dal Capo di Stato per trovare la soluzione politica che lo scenario militare non offriva, e non offre, alle truppe Isaf. Ma i contatti coi leader della Shura di Quetta e con lo stesso Mullah Omar non diedero i frutti sperati. Dentro quelle delegazioni, alla presenza dei vertici della Cia, c’era Rahmani che aveva i contatti giusti per organizzare gli incontri. Nonostante le relazioni di vecchia data non potè nulla per convincere i Taliban ad avvicinarsi al governo Karzai.

Se il passo fosse riuscito si sarebbero dovuto attivare alte acrobazie per spiegare alla popolazione, non solo quella afghana bersagliata dalle bombe Nato, ma quella occidentale che le bombe le paga e subisce la manipolazione informativa sul loro utilizzo, perché gli odiati nemici possono diventare vantaggiosi alleati. Ma non ce n’è stato bisogno. I talebani alzarono la posta delle pretese intuendo, fra l’altro, l’inconsistenza e la debolezza della strategia del piano Petraeus. Così nei due anni seguenti sono passati al terreno di nuove, variegate offensive. Hanno continuato a infiltrare l’esercito afghano addestrato dagli occidentali, i cui soldati-taliban hanno periodicamente compiuto azioni suicide all’interno delle caserme. Hanno lanciato attacchi sempre più arditi e spettacolari come l’ultimo di aprile contro la cittadella fortificata Nato nel centro di Kabul, un luogo simbolo della sicurezza che le forze d’occupazione garantivano ai propri apparati. Uno dei moniti sanguinari altrettanto simbolico fu l’uccisione, a mezzo kamikaze, d’un ormai anziano Burhanuddin Rabbani, presidente del Consiglio della Pace.

Pur sempre un pezzo da novanta nella gerarchia tribale del Paese. Eppure mentre quest’omicidio era stato rivendicato dai guerriglieri, l’eliminazione di Rahmani, che molti osservatori attribuiscono per metodo e strategia a un commando Talib, ieri è stata negata dal portavoce del movimento Mujahid che ha diffuso la laconica dichiarazione “Non siamo stati noi a eliminarlo”. Fallita la pianificazione militare, fallita quella diplomatica l’impasse politica statunitense nell’area occupata è totale. Però non si parla più di exit strategy: la campagna presidenziale Usa è in corso, le macchine elettorali di entrambi i pretendenti alla Casa Bianca fanno trapelare, naturalmente in maniera ufficiosa, la notizia che le truppe potrebbero stazionare in loco fino al 2024. Per una splendida guerra senza fine.

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