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Arafat assassinato con veleno radioattivo

Tracce di plutonio radioattivo, in quantità elevate ed anomale, sono state ritrovate sugli abiti indossati da Yasser Arafat e suoi suoi effetti personali, utilizzati negli ultimi giorni di vita dell’ex leader palestinese. E’ quanto emerge dalle conclusioni delle accurate analisi di laboratorio effettuate in Svizzera, secondo quanto
riferisce oggi l’emittente panaraba al Jazeera. Arafat morì l’11 novembre 2004 in un ospedale militare di Percy, alla periferia di Parigi.

Le analisi sono state compiute su campioni biologici prelevati, in particolare, sulla kefia e sullo spazzolino da denti di Arafat, che erano stati riconsegnati alla vedova del leader palestinese dalla dirigenza dell’ospedale di Percy. “La conclusione è che abbiamo trovato un livello significativo di plutonio in questi campioni”, ha detto il direttore dell’Istituto di Radio-Fisica di Losanna, François Bochud.

La scoperta conferma dunque i sospetti sull’avvelenamento dell’ex leader palestinese. I circa 50 medici che
hanno avuto in cura Arafat non hanno mai saputo dare una spiegazione esatta delle regioni del rapido deterioramento delle sue condizioni di salute. I palestinesi hanno accusato Israele di avere complottato per la sua morte. Per confermare la tesi della morte per avvelenamento da plutonio, occorrerebbe riesumare la
salma di Arafat e procedere ad ulteriori analisi, ha detto il direttore dell’Istituto di Losanna.    

Il plutonio è la stessa sostanza radioattiva che fu utilizzata nel 2006 a Londra per avvelenare l’ex spia russa Alexander Litvinenko.

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Sulla morte di Yasser Arafat riteniamo di straordinario interesse ripubblicare un articolo del giornalista di inchiesta israeliano Amnon Kapeliouk (lo stesso che curò l’inchiesta sulle stragi di Sabra e Chatila e una biografia di Arafat) uscito su Ha’aretz un anno dopo la morte di Arafat, Abu Ammar per il suo popolo.

Yasser Arafat ucciso

di Amnon Kapeliouk

 Per numerosi dirigenti palestinesi che l’hanno dichiarato pubblicamente, nell’opinione pubblica dei paesi arabi e anche altrove, il caso era scontato: il rais era stato avvelenato dagli israeliani. Ed è quello che pensa anche il suo medico personale (giordano), il dott. Ashraf al-Kurdi.
A quello che sino a quel momento era semplicemente una convinzione interiore, una voce di corridoio, i media israeliani hanno dato, in queste ultime settimane, una certa credibilità: hanno ventilato la possibilità di una «liquidazione» del presidente palestinese.
Questo termine brutale è stato utilizzato, ad esempio, il 30 settembre scorso, da Yoram Binur, il corrispondente della seconda rete televisiva per i Territori occupati. Tre settimane prima, il supplemento settimanale del quotidiano Haaretz (1) aveva intitolato il suo articolo: «Arafat è morto di aids o è stato avvelenato». Ma, nel loro articolo, i giornalisti Amos Harel e Avi Isacharoff, citando un esperto israeliano, definivano «bassissima» la possibilità che Arafat avesse contratto l’aids, sottolineando invece come, per numerosi medici, i sintomi inducessero piuttosto a pensare a un avvelenamento. In un’opera pubblicata nell’ottobre 2005 a Parigi e intitolata La septième guerre d’Israël (La settima guerra d’Israele), (2) i due autori presentano infatti, senza pronunciarsi a favore dell’una o dell’altra, tre ipotesi: avvelenamento, aids o semplice infezione. E uno dei coautori, in privato, è favorevole alla prima…
Cosa dicevano i medici dell’ospedale di Percy, uno dei migliori in Europa nel campo dell’ematologia? Firmato il 19 novembre 2004 dal primario di ematologia, il dott. B. Pats, il referto medico riservato concludeva: «Nel tredicesimo giorno di ricovero presso l’ospedale della scuola militare Percy e all’ottavo giorno del suo ricovero nel reparto di rianimazione, Yasser Arafat è deceduto per un grave episodio vascolare cerebrale emorragico massiccio. Tale emorragia cerebrale si è innestata su un quadro clinico che comprendeva quattro sindromi (3) (…) Il consulto di un gran numero di esperti di diverse specializzazioni e i risultati degli esami effettuati non hanno consentito di delineare un quadro nosologico che spiegasse l’associazione delle sindromi».
Questo linguaggio medico piuttosto vago non è l’unico fondamento della voce lanciata dai palestinesi: questi si basano anche sull’intenzione espressa senza mezzi termini dal primo ministro israeliano, Ariel Sharon, di volere eliminare Yasser Arafat. A partire dalla primavera del 2002, il generale Sharon ha reiterato le sue minacce. Soltanto la promessa che ha dovuto fare al presidente George W. Bush gli impedisce di passare a vie di fatto. Il giorno del Capodanno ebraico 2004, il primo ministro ripete con tono martellante:«Arafat sarà scacciato dai territori». Scacciato o ucciso? Sharon ricorda che Israele ha ucciso lo sceicco Ahmad Yassin, capo spirituale di Hamas, e poi il suo successore Abd al-Aziz Rantissi. C’è differenza tra Arafat, Yassin e Rantissi? Risposta: «Non ne vedo nessuna. Così come abbiamo agito contro quegli assassini, agiremo contro Arafat»(4).
All’inizio del novembre 2004, il giornalista Uri Dan, confidente del primo ministro, scrive che questi «ha annunciato a Bush che non si considerava più vincolato da quello che gli aveva promesso nel loro primo incontro nel marzo 2001: non attentare alla vita di Arafat.
Il presidente Bush ha fatto osservare che è forse preferibile lasciare il destino di Arafat nelle mani dell’Onnipotente, al che Sharon ha risposto che a volte era opportuno dare una mano all’Onnipotente» (5).
Alla Muqata, queste dichiarazioni erano state prese ancor più sul serio, dal momento che l’unità scelta dell’esercito israeliano, la Sayeret Matkal, si addestrava per lanciare un eventuale assalto contro il quartier generale di Arafat, e per eliminarlo se se ne presentava l’occasione. Il generale Sharon avrebbe anche assistito a una di queste esercitazioni. E nessuno ignora che il suo grande rimpianto è quello di essersi lasciato «sfuggire» Arafat durante l’assedio di Beirut nel 1982. Il ministro della difesa Shaul Mofaz e il ministro degli affari esteri Sylvan Shalom auspicavano anch’essi la sua eliminazione. E il corrispondente militare della seconda rete, Rony Daniel, descriveva Yasser Arafat come «un morto che cammina»…
Ma per quanto convincente possa essere, la volontà dei dirigenti israeliani di sbarazzarsi del leader palestinese non potrebbe, da sola, dimostrare l’avvelenamento. Pertanto, è opportuno ritornare sulle condizioni di salute del rais.
Il 18 agosto 2004, ho assistito personalmente al discorso del presidente Arafat di fronte al Consiglio legislativo palestinese, riunito alla Muqata. Per ben due ore, ha passato in rassegna i problemi del momento, ripetendo due o tre volte – come era nel suo stile – le frasi chiave del suo intervento. In piedi, con la voce robusta, non aveva l’aspetto di un malato.
L’arrivo all’ospedale di Clamart Il 28 settembre, in occasione del quarto anniversario dell’Intifada al-Aqsa, lo rivedo per l’ultima volta. Mi saluta con l’abbraccio abituale e mi chiede mie notizie. «Va tutto bene, al-hamdou lillah [Che Dio sia lodato], ma tu, Abu Ammar, hai perso molto peso in poco tempo». Il suo viso è dimagrito, il suo corpo sembra ballare nelle vesti. «Non è niente», risponde. Durante il pranzo, partecipa attivamente alla conversazione, pur mangiando – come sempre – molto poco. All’improvviso, il suo portavoce Nabil Abu Rudeina mi sussurra all’orecchio: «Meglio finire qui, perché Abu Ammar ha bisogno di riposarsi». Arafat mi abbraccia di nuovo, e così ci separiamo.
Nel mese di ottobre, le sue condizioni di salute peggiorano. Il 12, quattro ore dopo la cena, accusa dolori di stomaco, vomito e diarrea.
Curato per una influenza intestinale, non reagisce alle medicine.
Gli esami del sangue rivelano che il numero delle piastrine è molto basso, ma quello dei leucociti è stabile. Il 27, aggravamento improvviso: perde conoscenza per un quarto d’ora. Yasser Abed Rabbo, che gli ha appena reso visita, mi dice in confidenza: «Le sue condizioni sono molto gravi, molto gravi».
L’indomani giungono i medici egiziani, poi quelli tunisini, e infine quelli giordani. Non riuscendo a stabilire l’origine del male, suggeriscono di trasferire il malato in un ospedale francese. L’Eliseo dà immediatamente il suo consenso. Il generale Sharon, per il tramite del suo capo di gabinetto Dov Weissglas, autorizza non soltanto la sua partenza, ma anche il suo ritorno, una volta guarito, e, per uno strano cambiamento di idee, propone di inviare alcuni medici israeliani a Parigi. Il 29 ottobre, in mattinata, gli assistenti trasportano Abu Ammar dall’edificio in cui era rinchiuso da ben trentacinque mesi in uno dei due elicotteri inviati dalla Giordania. Invece della immancabile kaffiah, il rais sfoggia un cappello di pelliccia, e abbozza uno strano sorriso: non è l’Arafat che conosco dal nostro primo incontro nel lontano agosto 1982, a Beirut Ovest assediata. Le lacrime scorrono sulle guance delle persone vicine a lui, allorché l’elicottero prende il volo per Amman, da dove un aereo militare francese con tutte le attrezzature mediche necessarie lo porterà a Parigi.
A Clamart, Arafat arriva cosciente, ma molto debole. I primi esami non rivelano né leucemia, né tumori, bensì una grave infiammazione dell’apparato digerente, che i medici combattono con forti dosi di antibiotici e di anti-infiammatori. Le sue condizioni migliorano: fa qualche passo nella sua stanza, parla al telefono con il presidente Jacques Chirac e numerosi dirigenti palestinesi. Ma, il 3 novembre, d’improvviso entra in coma. Soffre di una serie di sintomi gravi, attribuiti a una tossina sconosciuta che i medici francesi non riescono ad individuare. Soltanto un miracolo può salvarlo, dice il suo entourage.
Due settimane dopo il suo arrivo, il presidente Yasser Arafat chiude gli occhi per sempre.
Per spiegare questa morte improvvisa, la stampa israeliana, come abbiamo visto, ha indicato tre cause: infezione, aids o avvelenamento.
La tesi dell’infezione non ha alcun fondamento medico: nessun medico francese, palestinese, egiziano, tunisino o giordano ha affermato di aver scoperto una traccia d’infezione durante i vari esami effettuati.
Inoltre, se fosse stata un’infezione la causa della sua malattia, allora Arafat avrebbe potuto fronteggiarla con la somministrazione di antibiotici.
La tesi dell’aids sembra sia stata accennata con l’unico scopo di infangare l’immagine del rais. Infatti l’articolo già citato di Haaretz non apporta il minimo elemento probatorio. Un’inchiesta del New York Times ha escluso in toto tale ipotesi. I medici francesi non la citano mai. I medici tunisini hanno proceduto a un test Hiv: negativo. «È inconcepibile, assicura un esperto israeliano, che una malattia che è durata due settimane, con diarree terribili, vomito violento, grossi problemi dell’apparato digerente, e che ha provocato gravi disturbi di coagulazione, sia stata provocata dall’aids» (6). In realtà, nessun documento medico accenna alla malattia, rivela il dottor Ashraf al-Kurdi, medico personale di Arafat da oltre venti anni.
Avvelenamento? Le autorità israeliane bollano le accuse come «stupide» e «malintenzionate». Da parte palestinese, si ricorda il tentativo di assassinare a Amman, il 25 settembre 1997, uno dei dirigenti di Hamas, Khaled Meshal: due agenti del Mossad in piena strada gli avevano iniettato un veleno nell’orecchio. Furibondo, re Hussein aveva preteso che Israele fornisse immediatamente l’antidoto al veleno, in caso contrario si sarebbe assunto la responsabilità di provocare una grave crisi tra i due paesi. Il primo ministro Benyamin Netanyahu accettò di consegnare l’antidoto e, per calmare le acque, liberò anche settanta prigionieri palestinesi, fra cui lo sceicco Yassin.
Un caso simile non è comunque una prova: i medici dell’ospedale di Percy dichiarano, nel loro referto, di non aver rinvenuto tracce di veleno conosciuto. Per giunta, hanno chiesto ad altri due laboratori – quelli della gendarmeria e dell’esercito – di effettuare le ricerche: tutto inutile. Eppure, alcuni esperti ritengono che si possano facilmente fabbricare prodotti tossici sconosciuti, alcuni dei quali scompaiono subito dopo aver provocato il loro effetto…
Alcuni dirigenti israeliani – fra cui Ehud Barak – prendono in considerazione la eliminazione fisica del presidente palestinese soltanto se non si lascerà «nessuna traccia israeliana». Questo spiegherebbe il ricorso a un veleno non rintracciabile: «È certamente quello che è successo», assicura. Un giornalista e esperto israeliano di lungo corso che preferisce anche lui conservare l’anonimato, ha raccontato a numerosi colleghi che, non appena fu nota la malattia del leader palestinese, si era persuaso che il rais fosse stato avvelenato. C’è di più: tre personalità del settore della sicurezza avrebbero discusso con lui, separatamente, quale fosse il metodo migliore da utilizzare, e sarebbero giunte alla medesima conclusione: il veleno. Tutto questo avveniva all’inizio del 2004…
Medico dei re ascemiti, il giordano Ashraf al-Kurdi seguiva anche Abu Ammar, di cui conosceva la cartella clinica a memoria. Anche lui, poco dopo il decesso del suo paziente, dichiarò di percepire indizi di avvelenamento. Aveva esaminato Arafat durante la fase critica della sua malattia, prima del trasferimento in Francia, e non sapeva nulla dei problemi di circolazione che l’avrebbero stroncato. Per questo esigeva che si costituisse una commissione d’inchiesta indipendente per procedere una volta per tutte a una autopsia che avrebbe stabilito le cause del decesso. Dolori ai reni e allo stomaco, assenza totale dell’appetito, calo delle piastrine, perdita di peso notevole, macchie rosse sul viso, colorito giallastro: «Qualsiasi medico vi dirà che si tratta di sintomi di avvelenamento» (7). In effetti, solo una commissione indipendente potrebbe consentire di sapere se Arafat è morto assassinato oppure no. (8) Yasser Arafat desiderava essere sepolto a Gerusalemme, sulla spianata delle Moschee, il terzo luogo sacro dell’islam. Poiché le autorità israeliana si opponevano, la direzione palestinese ha scelto di seppellirlo alla Muqata, simbolo dell’ultima lotta di Abu Ammar per la creazione di uno stato palestinese indipendente. Una tomba del «padre» della nazione nel suo quartier generale devastato da un esercito d’occupazione, può esserci un simbolo più struggente? sottolineano i suoi compagni di viaggio. Fin dall’indomani delle esequie, innumerevoli cittadini, singoli e a gruppi, turisti e ospiti ufficiali, vi si sono recati in una sorta di pellegrinaggio.
L’eredità di Yasser Arafat – ha detto, nel febbraio 2005, il ministro francese degli affari esteri dell’epoca, Michel Barnier, in occasione di una visita alla Muqata – appartiene al popolo palestinese e alla storia. E gli israeliani? «Si cullano nell’illusione, se credono che i loro scopi potranno realizzarsi nel dopo Arafat», ha dichiarato il primo ministro palestinese Ahmad Qorei. Aggiungendo: «Verrà il giorno in cui rimpiangeranno Arafat».

note:

(1) Haaretz, Tel-Aviv, 9 settembre 2005. Il giorno prima, il New York Times attribuiva il decesso a una emorragia provocata da una malattia sconosciuta, ma sottolineava che, nella cartella clinica, nulla provava l’avvelenamento o l’aids.
(2) Hachette Littérature, Parigi, 2005.
(3) «Sindrome digerente iniziale insorta trenta giorni prima, che indicava una enterocolite; sindrome ematologica con grave Civd (coagulopatia intravascolare disseminata), emofagocitosi midollare isolata senza sindrome d’attivazione sistemica dei macrofagi; ittero colostatico; sindrome neurologica con stupor fluttuante, poi coma».
(4) Yediot Aharonot, Tel Aviv, 14 settembre 2004.
(5) Maariv, Tel Aviv, 4 novembre 2004.
(6) Haaretz, 9 settembre 2005.
(7) Haaretz, 9 settembre 2005.
(8) Insoddisfatto dell’operato della commissione nominata nel novembre 2004, il consiglio legislativo palestinese ha creato, il 5 ottobre scorso, una nuova commissione di inchiesta incaricata di far luce in tempi brevi sulle cause della morte dello shahid.
(Traduzione di R. I.)

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