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Turchia. Il kemalismo tenta la riscossa

Il congresso del Chp rilancia un kemalismo d’attacco

Kılıçdaroğlu corre da solo e viene acclamato leader (1.164 voti su 1.282 delegati) nel 34° Congresso del Partito Repubblicano del Popolo che si sta tenendo ad Ankara. Oggi (ieri per chi legge) seicento candidati del gruppo kemalista si contenderanno i sessanta posti nel Consiglio direttivo, fra questi l’ambitissimo incarico di responsabile amministrativo, per tradizione vera eminenza grigia dell’organizzazione, l’uomo che assieme al segretario detiene il vero potere. Nihat Matkap e Gursel Tekin i maggiori pretendenti. Il lungo discorso del leader uscente e vincente s’è soffermato, com’era prevedibile, sulla politica estera e sulla crisi siriana. Qui il capo del maggiore partito d’opposizione turco ha affondato la spada sulla diarchia di governo e di partito: Erdoğan-Davutoğlu. Una critica tagliente nei concetti e nelle parole usate, come la denuncia del “subappalto del potere egemonico occidentale nel Medio Oriente”. “Noi non dobbiamo piegarci. Non possiamo spaventarci, siamo il Paese di Mustafa Kemal” ha tuonato il segretario fra il delirio dei delegati. Un richiamo caro alla tradizione, oggi più armamentario del nazionalismo estremista che della linea intrapresa da tempo dal Chp. Ma tant’è.

La questione siriana è la mina vagante dell’attuale politica internazionale nel Medio Oriente e, anche ora che si combatte per le vie di Damasco, fra i grandi la Russia continua a non essere disposta ad abbandonare a se stesso l’alleato Bashar. Il quadro interno nella gestione di una futura leadership siriana appare una nebulosa assoluta, un dopo Asad, ipotizzato da mesi sulle agende occidentali, è così temuto (e da tanti) che lo status quo prevale su realismo politico, difesa dei diritti e delle genti disarmate. Kılıçdaroğlu, ribadendo di non volere la guerra nella regione, rimprovera a Erdoğan di non ave mai lavorato a fondo per una conferenza internazionale sul tema impegnando Russia, Cina, Usa e Iran a trovare una soluzione nonostante gli interessi ferocemente contrapposti. Nelle scorse settimane la Turchia aveva toccato con mano l’incrudimento del conflitto in Siria con la vicenda dell’abbattimento di un suo (e della Nato di cui è membro) caccia da parte di un missile damasceno. Nelle polemiche interne seguite, politici del governo e dell’opposizione s’erano bersagliati di offese. Gli islamisti avevano attaccato i kemalisti proprio sul terreno a loro caro della difesa nazionale, accusandoli (sic) di antipatriottismo.

Kılıçdaroğlu dal palco del congresso si prende la rivincita sulla vicenda ricordando al premier che dal 22 giugno (data dell’incidente) il governo non ha ancora chiarito le dinamiche dell’abbattimento del jet militare e, a questa stoccata, la platea va in visibilio. Gli erdoğaniani di governo, ospiti dell’assise, incassano diplomaticamente. Alle domande della stampa rispondono che coi repubblicani c’è dialettica: un rapporto da avversari, non da nemici. E sul fronte del cambiamento che è stato uno degli slogan del congresso insieme alla riconquista della leadership del Paese per far cessare “la pressione e l’oppressione” il neo segretario ha sfogliato un ampio cahier des doléances. Secondo lui l’attuale governo conduce al disordine su parecchi terreni: un giovane su quattro è disoccupato, aumentano le morti bianche, i costumi islamici allontanano le donne dal lavoro, i divorzi sono in crescita, le prigioni sono zeppe d’oppositori. A tal proposito fra le gigantografie esposte in sala, accanto al padre della patria Ataturk, campeggiavano quelle di Mustafa Balbay e Mehamet Habelar, deputati del Chp accusati di golpe e terrorismo in conseguenza alle inchieste che un anno fa portarono all’azzeramento dei vertici delle Forze Armate nazionali e all’incriminazione di diversi ufficiali.

Fra i temi trattati c’è stato anche l’indipendenza della magistratura considerata succube delle pressioni governative sia in fase istruttoria sia giudiziale. E nella cavalcata antierdoğaniana del leader repubblicano, accanto al terreno delle libertà (politica, di espressione, d’informazione) è spuntata l’immancabile questione kurda, che in altre fasi ha visto kemalisti, islamisti, oltre che nazionalisti, d’accordo nel reprimere i militanti del Pkk e contenere le velleità del Partito della Pace e Democrazia (filo kurdo). Kılıçdaroğlu rilancia quella che fu la tattica di Erdoğan verso la popolazione kurda di Turchia fra il 2009 e 2010: l’idea di riconciliazione. Tentativo caduto nel vuoto a seguito sia di progressive richieste da parte della forte minoranza, sia di conseguenti chiusure dell’Akp di governo messo sotto pressione dal rilancio della lotta armata operata dal partito di Ocalan che considerava insignificanti i passi del governo e l’accusava di continuare la repressione contro le popolazioni delle aree del sud-est. Ora Kemal Kılıçdaroğlu tende una mano all’altra opposizione, occorre vedere quanto la mossa sia disinteressata.

Enrico Campofreda, 18 luglio 2012

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