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Sinai, la sfida egiziana della sicurezza

L’attacco di domenica notte alle guardie di confine egiziane nel Sinai con uccisioni, successiva repressione e vendetta promessa e mantenuta dagli apparati della sicurezza nei confronti di gruppi jihadisti interni e palestinesi della Striscia di Gaza mette il dito in una piaga più che purulenta. Che entra nel merito di una questione internazionale infinita su cui l’Egitto del passato aveva giocato un ruolo inizialmente soggettivo e poi subordinato agli interessi dell’ex nemico israeliano. Gaza col suo milione e mezzo di palestinesi prigionieri di fatto, sottoposti a durissime restrizioni economiche, supportati da finanziamenti più ricattatori che umanitari affinché nulla cambi alimenta tensione e rabbia fra giovani che possono trovare nell’azione dimostrativa, come quella messa in atto ultimamente, una ragione di vita contro la stessa ragion di governo del fronte della resistenza compattato da Hamas. La rinnovata collaborazione egiziana a limitare i traffici “illegali” tramite i famosi tunnel che ha visto giungere attorno al confine di Rafah scavatrici con cui squassare il terreno può essere stata un’ennesima scintilla. Oppure no, perché comunque il vasto territorio del Sinai, smilitarizzato per gli ultra trentennali accordi con Israele, rappresenta una sorta di terra di nessuno dove tribù beduine, contrabbandieri, gruppi intransigenti possono perseguire i propri scopi.

Durante i mesi della transizione, tuttora in corso e tutta da scrivere per quel che riguarda orientamento costituzionale e politica estera, accanto al tema centrale del rilancio dell’economia s’è sempre posto la questione della sicurezza. La funzione di questa nazione negli oltre sessant’anni di riorganizzazione geopolitica del vicino Medio Oriente, coi traumi di occupazioni, conflitti e paci armate, è stata centrale. Continua a esserlo nella dirompente fase che da mesi vede sommovimenti politici, guerre civili e piani di destabilizzazione esterni. Nella ristrutturazione dei rapporti di forza fra potenze regionali che si confrontano e scontrano anche per interposti gruppi armati locali (Turchia, Iran, Arabia Saudita) l’Egitto potrebbe rivestire un ruolo di mediazione, che deve comunque fare i conti con la macro politica che si decide soprattutto a Washington, Mosca e Pechino. Per farlo dovrà mostrasi credibile e unito, aspetto finora totalmente fuori dall’orizzonte degli eventi. Il potere della lobby militare, incentrato su cannoni, filiera economica e struttura del Consiglio Superiore delle Forze Armate ha tenuto in scacco la grande avanzata della Fratellanza Musulmana ma ha dovuto digerirne i successi elettorali, limitando quelli parlamentari e adeguandosi alla figura simbolo del Presidente Mursi. Negli sviluppi di questo nuovo momento critico le due componenti sono costrette a collaborare.

Una nuova contrapposizione indebolirebbe l’immagine del Paese su uno scenario internazionale particolarmente ostico. Le mosse di Mursi, che ha deciso di sostituire alcuni uomini di vertice: il capo dei servizi di Intelligence e quello della guardia presidenziale che governa anche la provincia del nord del Sinai, non sembrano ingerenze bensì decisioni prese di concerto con lo staff di Tantawi per rafforzare l’efficienza e non ricevere nuovi colpi da coloro che non si è esitato a definire “terroristi”. La distanza della Confraternita da velleità jihadiste è nota da tempo, i ruoli istituzionali rivestiti dai suoi uomini non possono che portarli verso scelte repressive pure estreme come confermano i raid, anche dell’aviazione, con cui si sono colpiti siti e villaggi sospettati d’essere rifugio di miliziani islamisti. E si son fatti venti morti. Con una simile real politik il Capo dello Stato incarna un Egitto che piace ai militari e alla copiosa popolazione che li sostiene. La stessa sua assenza nel giorno dei funerali delle 16 guardie di frontiera è risultata un escamotage per evitare contestazioni dei filo militaristi più scalmanati, non uno sgarbo all’Esercito. Lo conferma il via libera dato all’immediata “vendetta” contro i gruppi jihadisti. Quelli di nazionalità palestinese colpiti non mettono in discussione i rapporti del Cairo coi vertici di Hamas perché taluni iper resistenti sono diventati per lo staff di Hanyeh una “coscienza critica” in molti casi ingombrante anche per la gestione del quotidiano.

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