A meno di un anno dall’uccisione del loro massimo comandante, Alfonso Cano, mettendo fine a giorni di speculazioni il presidente Juan Manuel Santos si è rivolto al paese nella notte per annunciare “colloqui esplorativi” con le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc), la più longeva guerriglia latinoamericana, nata nel 1964.
In verità, Santos è stato preceduto dalla catena colombiana Rcn e da Telesur, l’emittente sudamericana basata a Caracas, che si sono spinte ben oltre: hanno infatti riferito della firma di un accordo tra le parti avvenuta nei giorni scorsi all’Avana per avviare formalmente un processo di pace che porti alla fine del conflitto armato, annunciando per il 5 ottobre a Oslo l’installazione vera e propria del tavolo del dialogo con la mediazione di Venezuela, Cuba e Norvegia.
Nel suo intervento, Santos non si è però profuso in dettagli, confermando “avvicinamenti” tra governo e guerriglia di cui “si conosceranno i risultati nei prossimi giorni. I colombiani – ha aggiunto il presidente – possono essere certi che il governo sta agendo con prudenza, serietà e fermezza, anteponendo sempre il benessere e la tranquillità di tutti gli abitanti”. Sono tre i capisaldi indicati da Santos nell’intraprendere un processo da qualcuno già definito storico, il terzo tentativo ufficiale di negoziare la pace con la guerriglia negli ultimi 30 anni: Apprendere dagli errori del passato; finalizzare la trattativa alla fine del conflitto e non al suo prolungamento; mantenere le operazioni e la presenza militare in tutto il territorio nazionale, in riferimento ai falliti colloqui intrapresi nel 1998 da Andrés Pastrana che comportarono la controversa smilitarizzazione di un’area di 42.000 km2 del Caguán, nel sud del paese, divenuta da allora una zona sotto ‘amministrazione’ delle Farc.
Mentre l’esecutivo mantiene il massimo riserbo sull’identità dei possibili negoziatori, la stampa indica senza riserve Frank Pearl, ministro dell’Ambiente, e Sergio Jaramillo, consigliere per la sicurezza, per il governo, e Rodrigo Granda e Jaime Alberto Parra, per le Farc. Come garanti o ‘facilitatori’ si fanno i nomi dei norvegesi Dag Nylander, Jennifer Shirmer e Jan Egeland, già sottosegretario dell’Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari dell’Onu (Ocha).
‘Telesur’ ha messo peraltro in risalto il ruolo giocato sin qui da Chávez che – impegnato da luglio nella campagna elettorale per le presidenziali venezuelane del 7 ottobre – avrebbe “messo a disposizione delle parti tutto ciò che può servire all’architettura di questi colloqui”. In proposito, tra le prime reazioni spicca quella di Alvaro Uribe, controverso predecessore di Santos (di cui quest’ultimo fu ministro della Difesa, ndr) e suo ‘padrino’ prima della rottura tra i due: “La legittimazione che il governo Santos ha fatto della complicità di Chávez con la guerriglia ripaga ora Chávez che li fa sedere attorno a un tavolo affinché ciò gli serva per la rielezione” ha detto l’ex presidente.
Il prestigioso quotidiano ‘El Espectador’, ricorda oggi che Santos, fin dal suo insediamento nell’agosto 2010 disse chiaramente che le “chiavi della porta della pace” sarebbero rimaste nelle sue tasche: ciononostante dall’inizio dell’anno le voci su una possibile apertura a un processo di pace si sono fatte insistenti, scrive il giornale, con la presenza a Bogotá di due emissari delle Farc che avrebbero chiesto e ottenuto una disponibilità da parte del governo, poi confermata da incontri a Cuba.
Gli interrogativi sostanziali vertono sull’agenda delle Farc che, aggiunge il giornale, hanno sempre preteso di coinvolgere la società civile in un possibile negoziato. Inoltre “non sono un interlocutore facile: Vogliono la riforma agraria…pretendono che vengano messi in discussione i contratti con le multinazionali petrolifere e minerarie…richiedono spazi politici per avanzare verso un contesto più democratico e credono che la pace passi anche attraverso una corretta gestione dell’ambiente…Gli altri sono dettagli di forma”, come la condizione che un negoziato si svolga all’interno del territorio nazionale.
Nonostante l’opposizione di quello che ‘El Espectador’ definisce “l’uribismo purosangue”, sta di fatto che, almeno sulla carta, l’opzione di un dialogo con la guerriglia sembra trovare al momento il favore di tutte le correnti politiche.
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