Sono cominciati ieri i difficili negoziati sugli aumenti salariali richiesti dai lavoratori delle miniere di platino di proprietà della multinazionale britannica Lonmin. Difficili perché molti dei sindacati presenti a Marikana e anche moltissimi lavoratori indipendenti non solo non hanno firmato l’accordo concordato la scorsa settimana tra il sindacato maggioritario e l’azienda, ma continuano a scioperare bloccando di fatto ogni attività.
In particolare l’Association of Mineworkers and Construction Union (Amcu) accusa il sindacato Num, collegato al partito di governo African National Congress, di non difendere adeguatamente gli interessi dei lavoratori e le loro rivendicazioni, in nome della pace sociale predicata dal presidente Zuma e dalla nuova elite che governa il paese uscito dall’apartheid. Mentre a Marikana sono più di 10 mila i minatori che incrociano le braccia – e minacciano di rappresaglie i colleghi che vorrebbero tornare al lavoro – non lontano, nella regione a nord-ovest di Johannesburg, 15.000 lavoratori hanno scioperato ieri in una miniera d’oro gestita dalla Gold Fields, una delle maggiori produttrici mondiali di metallo giallo. E a chiedere aumenti salariali sono adesso anche 15.000 dipendenti di un’altra miniera di platino della zona, gestita dalla Implats.
Una protesta, quella dei lavoratori del settore minerario sudafricano, che assume sempre più un carattere politico generale, e che potrebbe aprire la strada ad una stagione di conflitti sindacali e sociali anche in altre categorie del mondo del lavoro insoddisfatte dell’immobilismo di un paese che dopo la fine della segregazione razziale non ha attuato nessuna vera riforma in campo sociale e lavorativo.
Di seguito vi proponiamo un’intervista dell’agenzia missionaria Misna a Mike Pothier, ricercatore a Pretoria dell’Ufficio parlamentare della Conferenza episcopale. Una intervista interessante, perché Pothier se da una parte difende la pace sociale e privilegia le rivendicazioni pragmatiche rispetto a quelle politiche, dall’altra evidenzia le contraddizioni dell’attuale assetto del paese e spiega alcuni retroscena politici del conflitto in corso nelle miniere.
“Dottor Pothier, a Marikana e nelle altre miniere sono in gioco solo i salari?
“Nella vicenda di Marikana ci sono livelli diversi. Il primo è la protesta dei lavoratori. Una protesta frutto di povertà e disuguaglianze sociali, cavalcata con abilità da un sindacato che ha giocato anche su alcune incongruenze contabili. Dire che un minatore percepisce un salario di 4000 o 5000 rand al mese è giusto fino a un certo punto. I sindacalisti dell’Association of Mine and Construction Union hanno sorvolato sulle indennità per la casa, le assicurazioni e altri benefit che portano il totale a 10.500 rand”.
Le richieste dei lavoratori sarebbero ingiustificate?
“Non voglio dire questo, assolutamente. Dico solo che l’Association of Mine and Construction Union ha adottato la strategia tipica dei sindacati emergenti a caccia di sostenitori e iscritti: promettere il massimo, scommettendo sul malessere e la rabbia dei minatori”.
A Marikana è ricomparso Julius Malema, espulso dall’African National Congress dopo aver chiesto la nazionalizzazione delle miniere. Ha una nuova occasione?
“Nella sua fase iniziale la protesta dei minatori non era legata ad alcuna corrente politica, né interna, né esterna all’Anc. Il massacro di Marikana, però, ha innescato una politicizzazione del conflitto. I comizi di Malema hanno confermato il rischio di un allineamento tra i lavoratori e le fazioni interne ed esterne al partito. Di sicuro, se Marikana diventa una questione politica sarà più difficile risolvere la vertenza sindacale, dunque i problemi concreti dei lavoratori”.
Oggi in miniera c’erano solo il 6% dei minatori. Lo sciopero continuerà a lungo?
“Si indebolirà nell’arco di una o due settimane. Non si può stare troppo a lungo senza produrre e, soprattutto, senza stipendio. Ci sarà un accordo di qualche tipo. Altra storia sono le tensioni politiche, destinate a crescere fino alla conferenza che a dicembre eleggerà il candidato presidente dell’Anc per le prossime elezioni. Malema è fuori dal partito ma ha carisma e conserva un seguito, soprattutto nella Lega giovanile che guidava fino a pochi mesi fa. La conferenza potrebbe essere una delle sue ultime occasioni; per contrastare il presidente Jacob Zuma ce la metterà tutta”.
Ha possibilità di riuscire?
“Il suo problema è che non ha alleati tra i nemici di Zuma ai vertici del partito. Penso a personalità come il vice-presidente Kgalema Motlanthe, capo di Stato per alcuni mesi dopo le dimissioni di Thabo Mbeki. Motlanthe sta preparando la campagna contro Zuma con l’appoggio di alcuni ministri di peso e di intellettuali da tempo nell’Anc che ora chiedono un cambiamento. Non un cambiamento di tipo ideologico. Pongono soprattutto la questione della lotta alla corruzione e al clientelismo. Sono convinti che Zuma non abbia dimostrato capacità di guida e, al contrario, abbia reso un cattivo servizio all’immagine del Sudafrica: anche con la sua vita personale e i rapporti con le donne, tutt’altro che irreprensibli. Per affrontare i nodi del Sudafrica di oggi ci vuole ‘gravitas’”.
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