Il controllo del potere finanziario e militare sulla “sfera politica” è ferreo e impedisce persino che possa apparire un terzo protagonista a disturbare il “bipolarismo ammanettato” entro cui è confinata la dialettica degli interessi sociali. Il movimento operaio è di fatto “illegale” e non può essere costituito un soggetto politico di classe. Il meccanismo elettorale contorto (gli elettori di ogni singolo Stato eleggono di fatto un pacchetto di “grandi elettori” già predisposto dai due blocchi di potere, e chi vinece in uno stato prende tutti i “grandi eletori di cui lo stato dispone; poi la somma nazionale dei grandi elettori stabilisce chi sarà il presidente Usa) non favorisce davvero risultati attendibili, sul piano democratico, in qualsiasi altr paese del pianeta.
Ma il risultato elettorale non è per questo ininfluente. Serve a stabilire, fatti salvi gli interessi della “classe dominante” (in realtà un insieme di interessi non sempre coesi), quale orientamento principale prenderà il ruolo degli Usa nel mondo. Se più “chiuso” e orientato ai (grossi) problemi interni, specie economici, o se più aggressivo e “interventista” nei confronti del mondo.
Il riassunto dell’Ansa per chi proprio non può vivere senza sapere com’è andato l’ultimo dibattito televisivo.
Barack Obama si conferma un valido ‘Commander in Chief’. A quindici giorni dall’election day, dimostra di avere piena padronanza di tutti i più importanti dossier di politica estera. Vivace, reattivo, spesso aggressivo, vince il terzo e ultimo dibattito tv dedicato appunto alla politica internazionale. Non sferra mai colpi da ko, ma in una lotta così serrata anche un vantaggio di pochi punti percentuali tra gli indecisi, come nota a caldo Nate Silver del New York Times, potrebbe fare la differenza.
Romney dal canto suo cerca più volte di spostare il discorso su un terreno a lui più congeniale, quello dell’economia, della crisi e del lavoro che non c’è. Sin dall’inizio, Obama costringe Mitt Romney a stare sulla difensiva. «Il problema è che su tante questioni – attacca il presidente – dal Medio Oriente, all’Afghanistan, all’Iraq, lei è sempre fuori gioco’’.
Il candidato repubblicano capisce subito che deve limitare i danni, puntando a un pareggio indolore. Più volte parla di ‘pace’. Già in apertura si congratula con Obama per l’uccisione di Bin Laden, in modo da spuntare il cavallo di battaglia obamiano, l’exploit più evidente della sua presidenza. Evita con cura il corpo a corpo. Da un lato ricorda genericamente che con Obama l’America è meno influente nel mondo, critica il presidente per aver maltrattato Israele, il tradizionale primo alleato d’America. Ma dall’altro, quando si entra nello specifico, praticamente si dice d’accordo con moltissime scelte del Presidente.
A sorpresa non attacca sulla Libia, forse memore del passo falso della settimana scorsa. Su Siria, Iran, Egitto, Russia e soprattutto Afganistan, anche a costo di qualche giravolta rispetto al passato, mostra di avere le stesse soluzioni proposte dall’inquilino della Casa Bianca. Assicura che se eletto confermerà il ritiro da Kabul entro il 2014, benedice l’uso dei droni, corregge il tiro su Mosca definita pochi mesi fa ‘il nemico numero uno’, derubricando l’ex Urss come un ‘antagonista geo-politico’ per l’America. E poi ammette che le sanzioni a Teheran stanno funzionando e che l’attacco militare è »l’ultimo passo«. Prende perfino le distanze da George W. Bush. Insomma, mostra un’identità di vedute con il suo competitor pressochè totale che provoca qualche sfottò su Twitter, dove qualcuno cinguetta: »Breaking News, Romney appoggia Obama«. Ma poco importa. Il vero obbiettivo è un altro. Così, appena può, Mitt cerca di uscire dall’angolo parlando di economia interna, della crisi e del lavoro, del tallone d’Achille di Obama.
Una fuga strategica che però gli riesce solo in parte. Il moderatore, l’anziano Bob Schieffer suda sette camicie per cercare di riportare il discorso sul mondo. Ma è Obama con i suoi attacchi continui e puntuali a metterlo spesso in difficoltà. Così lo staff presidanziale può tirare un sospiro di sollievo dopo la doccia fredda del primo dibattito di Denver.
»Obama ha dimostrato in modo forte e deciso di essere il Commander in Chief«, commenta soddisfatto il suo braccio destro, David Axelrod. Felice anche John Kerry, il suo allenatore ai duelli tv, che prende in giro Romney citando la gaffe sulle donne della settimana scorsa: »Mitt sembra non avere ‘fascicoli’ sulla politica estera«.
Unica nota stonata, ma ampiamente prevista, da parte di ambedue i candidati alla Casa Bianca e dello stesso moderatore: nessuna domanda, nessun cenno seppur minimo all’Europa e alla crisi dell’Eurozona. Ma nemmeno all’America Latina. Un dettaglio che non è sfuggito all’ironia amara e sferzante di Michael Moore, il regista premio Oscar, coscienza critica della sinistra americana: ‘’Hey – ha twittato alla fine della serata – nessuna menzione di Europa, di America Latina, di Antartide al dibattito sulla ‘politica estera’. È vero che se non possiamo bombardarti, non parleremo mai di te».
Per chi ama i “duelli”: Barack Obama batte Mitt Romney 2 a 1. Secondo un sondaggio Cnn, il presidente ha vinto anche il terzo dibattito Tv, quella sulla politica estera, che si è svolto ieri a Boca Raton, in Florida. Il 48% del campione ha infatti assegnato la vittoria all’attuale inquilino della Casa Bianca, mentre lo sfidante repubblicano si è fermato al 40%.
Romney viene giudicato capace di svolgere il ruolo di presidente dal 60%, ma Obama fa un pochino meglio con il 63%. Dopo il deludente risultato del primo dibattito, Obama era già stato giudicato vincitore del secondo appuntamento. Il rilevamento è stato effettuato su un campione di elettori giù iscritti alle liste elettorali che hanno assistito al dibattito.
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