“Con il dolore nel cuore dobbiamo ammettere che sta tornando la tappa degli attori militari della guerra, che nessuno vuole”: così Iván Márquez, capo della delegazione della guerriglia di sinistra ai negoziati di pace in corso da alcuni mesi con il governo colombiano ospitato a l’Avana, ha annunciato alcune ore fa la fine del cessate-il-fuoco unilaterale proclamato dalle Forze armate rivoluzionarie (Farc) lo scorso 20 novembre.
In questi mesi, nonostante le trattative in corso, il governo di Bogotà non ha in alcun modo fermato le operazioni militari e la repressione nei confronti della guerriglia e delle organizzazioni di massa della sinistra colombiana, rendendo di fatto inutili le conversazioni in corso a Cuba. Per questo il “numero 2” delle Farc, annunciando l’interruzione della tregua, ha chiesto al governo Santos una tregua bilaterale che renda reali ed effettivi gli sforzi per una soluzione negoziale del conflitto civile in corso nel paese latinoamericano da parecchi decenni.
“Se, per qualsiasi circostanza, il governo ritiene non pertinente né necessario questo contributo – ha spiegato Màrquez – allora proponiamo un trattato per ‘regolare’ la guerra…per evitare alla popolazione maggiori sofferenze”.
Per stessa ammissione del presidente Juan Manuel Santos, nel corso della tregua “c’è stata una riduzione importante nel numero delle azioni dell’organizzazione (le Farc, ndr) e nel numero dei nostri soldati morti o feriti”. Secondo il capo dello stato però il rispetto della sospensione dell’offensiva “è stato relativo” e avrebbe comportato almeno 57 violazioni da parte della guerriglia. Dal momento della ripresa delle ostilità, ha minacciato ancora Santos, “sia la forza pubblica che l’esercito, le forze aeree, la Marina e la polizia sanno perfettamente cosa fare”. Naturalmente nelle sue dichiarazioni Santos si è ben guardato dal ricordare che durante i mesi in cui erano in corso i colloqui tra le parti esercito e polizia hanno realizzato numerose offensive militari uccidendo almeno 35 guerriglieri e arrestandone altre decine. Senza parlare della repressione esercitata nei confronti dei partiti politici, dei sindacati e delle altre organizzazioni di massa che nel paese si sono mobilitate affinché la trattativa sfoci in un cambiamento sociale, politico ed economico radicale.
Il processo di pace partito a metà ottobre è ripreso la scorsa settimana dopo una pausa per le festività di fine anno: i colloqui si concentrano sul primo punto in agenda, il problema della concentrazione della terra e la richiesta di una seria riforma agraria, tra le principali cause della sollevazione in armi delle Farc nel lontano 1964. E’ proprio dall’Avana che la delegazione della guerriglia ha dato l’annuncio, a sorpresa, della fine della tregua unilaterale dell’organizzazione che conta decine di migliaia di combattenti e controlla metà del grande paese.
Uno dei più fieri oppositori di un eventuale accordo tra governo e opposizione armata sembra essere il ministro della guerra Juan Carlos Pinzón, rappresentante dell’oligarchia e in particolare di quei latifondisti responsabili di decine di uccisioni di sindacalisti e braccianti e che ora temono di perdere potere e profitti. Era stato proprio Pinzòn, alla vigilia della ripresa dei colloqui il 14 gennaio, a dire che “le FARC non hanno mai mantenuto la loro parola”, annunciando di fatto la volontà degli apparati statali di continuare la guerra contro le organizzazioni guerrigliere e popolari.
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