La spirale di morte non s’allontana dall’Egitto. Le ventuno pene capitali comminate agli ultras del club
Masry per la strage dello Stadio di Port Said (72 vittime, in gran parte tifosi della squadra cairota Ahly) propone uno scenario di guerra. I familiari dei condannati hanno tentato l’assalto alle carceri nel tentativo di liberare i congiunti, ne sono seguite sparatorie con le forze dell’ordine e una lunga scia di sangue: ventotto vittime, un paio sono poliziotti. All’odio contro i giudici degli abitanti locali s’è contrapposto quello delle Forze dell’Ordine per l’uccisione dei commilitoni. Il tutto sullo scenario di trentasei ore di scontri iniziati la notte precedente alle manifestazioni che ricordavano il secondo anniversario della rivolta contro Mubarak che il Fronte di Salvezza Nazionale trasformava in protesta contro il “regime di Mursi”.
I quattro cortei del Cairo confluiti a piazza Tahrir avevano dato adito a dure schermaglie, sassi e molotov opposti ai temibili gas lacrimogeni degli agenti antisommossa che facevano contare parecchi feriti ma nessuna vittima. Peggiore la situazione ad Alessandria, Suez, Ismaylia dove la violenza dilagava dirigendosi sulle sedi della Fratellanza Musulmana, assaltate come nella micro guerra civile di inizio dicembre 2012. Poi in tarda serata la situazione precipitava. Un morto a Damanhour nel Delta del Nilo e soprattutto a Port Said dove cadevano sotto i colpi d’arma da fuoco sette civili, tre minori dai 15 ai 17 anni, e due poliziotti. Contenere la rabbia è diventato impossibile, lo spettro della crisi gravissima si riaffaccia in una contesa che mescola intenti politici con disegni destabilizzanti attuati da diversi protagonisti.
I giudici hanno voluto offrire un verdetto draconiano a una delle vicende oscure della gestione post Mubarak del Consiglio Supremo delle Forze Armate. La strage dello Stadio del 1° febbraio 2012 vedeva i tifosi del Masry manovrati da probabili infiltrati intenti a punire una frangia della tifoseria del clan calcistico cairota sempre presente nelle mobilitazioni di piazza Tahrir. Gli infiltrati puntavano a punire l’anima ribelle dell’Ahly, mentre i fan del club avversario vivevano solo la rivalità calcistica. Ma per quegli scontri non c’erano presupposti d’istintualità agonistica (il Masry aveva vinto) e l’eccesso di violenza superava di molto ogni conflitto sportivo. Si trattò di uno dei molteplici episodi che seminavano morte e terrore usando picchiatori prezzolati e agenti infiltrati che hanno caratterizzato la Giunta Tantawi. Anziché cercare e svelare quelle trame la magistratura condanna le pedine, dirette o ignare, e applica il massimo della pena che neanche il vecchio raìs e il suo sodale Adly avevano ricevuto per gli 800 morti provocati durante i 18 giorni della rivolta del 2011. La sentenza sembra l’ennesimo eccesso di un Paese che in ogni sua parte – quando sul versante islamista approva la Carta Costituzionale o sul quello laico la boicotta, quando scioglie il
Parlamento, quando persiste nel dichiarare non valide le elezioni presidenziali e l’ultimo consulto referendario, quando accentra come ha fatto Mursi ogni potere – sembra fare di tutto per giungere allo scontro. Con un clima che s’arroventa settimana dopo settimana, volta le spalle all’accettazione dell’altra metà del Paese che oggettivamente esiste, mantiene ferme iniziative di ripresa economica con drammatiche
ricadute sulla carenza di lavoro per milioni di concittadini, il pericolo di esasperazione dei problemi diventa assoluto.
Le forze politiche sono le responsabili di quest’instabilità. Sicuramente le islamiche che governano tramite il presidente Mursi e il premier Qandil, accusate d’immobilismo e accentramento del potere e di occuparsi soprattutto di quest’ultimo. Ma l’opposizione non è esente da colpe specie nella reiterata pratica di un contrasto cui si risponde solo con slogan e ben poche proposte su economia e anche sulle prospettive di un governo alternativo. Mentre Mursi, vista la gravità della situazione ha annullato il previsto viaggio in Etiopia
richiamando Qandil dall’assise di Davos, s’appresta all’ennesimo discorso alla nazione, la triade ElBaradei-Moussa-Sabbahi, finora riottosa agli inviti di collaborazione, lancia una proposta basata su quattro punti: creazione di un governo di unità nazionale, annullamento della Costituzione, annullamento della legge elettorale, riconciliazione fra le parti senza precondizioni dell’attuale governo. Richieste ancora una volta unilaterali che potrebbero essere respinte almeno per metà. E dunque la giostra torna al punto di partenza e gioca non solo col sangue degli ultimi Mohammed diventati martiri (quattro delle prime sette vittime di Port Said si chiamavano così) ma gioca stavolta col fuoco d’una contrapposizione che imbocca la strada dell’odio. A questo punto l’arma della democrazia potrebbe perdere quest’ultima prerogativa assumendo solo i contorni dello scontro cieco che non costruisce il futuro. Va ad azzerarlo.
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