Mentre Port Said, il governatorato di Suez, di Alessandria e altre località compresa il Cairo s’infiammavano in un turbolento e sanguinoso secondo anniversario della Primavera, mentre i parenti dei 21 tifosi del Masry condannati a morte seminavano morte, restando essi stessi vittime di quarantott’ore di violenza, la tifoseria più forte, blasonata, ribelle d’Egitto, i diavoli rossi dell’Al-Ahly festeggiavano la sentenza ubriachi di gioia mista a senso di giustizia e per alcuni di vendetta. Riuniti sabato prima davanti poi all’interno dello stadio Zamalek, struttura nasseriana ciclopica da 120.000 posti, hanno continuato per ore l’infoiato giubilo innalzando stendardi e cori. Alcuni portavoce dichiaravano che il 9 marzo, data della seconda udienza di un processo che vede implicati altri 53 imputati, vorranno vedere condannati tutti gli assassini dei propri compagni chiamati martiri, alla maniera dei caduti di Tahrir. Per quanto deceduti nello stadio di Port Said la definizione non è campata in aria per due motivi. Il primo riguarda la presenza dei giovani tifosi della squadra cairota nella piazza simbolo della rivolta anti Mubarak sin dalle prime ore del 25 gennaio 2011. Presenza proseguita per mesi contro la Giunta militare che questi ragazzi hanno odiato e contestato assieme a ogni altra divisa, esposta nei gruppi antisommossa o celata dagli agenti dell’Intelligence.
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Per tale motivo la strage dello stadio del 1° febbraio 2012 assume i contorni d’una strage di Stato, come quella del Maspero di alcuni mesi prima. Episodi oscuri con cui i mubarakiani vicini al fedelmaresciallo Tantawi tentavano di destabilizzare la voglia di cambiamento che animava una parte degli egiziani seminando paura e terrore come ai tempi del raìs. Periodo che non sembra concluso affatto perché nella protesta ribelle, animata dalla gioventù senza lavoro cui appartengono anche tanti ragazzi delle curve, s’insinuano gli untori di professione anche gli odiati poliziotti che hanno accoltellato o semplicemente lasciato spazio agli accoltellatori sugli spalti di Port Said. Nel fuoco e fra le vittime di queste ore c’è la complessità di una nazione antica. I pensieri di una popolazione per oltre metà costituita da giovani sotto i 25 anni con esigenze globalizzate anche se militano fra le componenti dell’Islam politico. Un magma di linfa vitale e di rabbia dove si muovono minoranze rumorose e organizzate come queste para calcistiche e tendenze claniste dei congiunti dei condannati a morte (sulla sentenza definitiva dovrà pronunciarsi la più alta autorità islamica che è il gran Muftì) che non esitano a imbracciare le armi per provare a liberare i parenti. Sul Paese pesa la defatigante marcia verso un cambiamento che non compare se non nel desiderio di comando delle fazioni politiche.
La chiamata di correo verso tutti i fronti e partiti è d’obbligo. Perché la spaccatura oggettiva fra due visioni della società che non riesce a trovare non un difficile compromesso ma perlomeno la condivisione di norme sulla strada da percorrere è diventata pericolosissima. La demonizzazione dell’avversario, vizio peraltro diffusissimo in politica, le contrapposizioni e destabilizzazioni diventate perenni lasciano spazio al caos e a chi vuole decidere per tutti. Il gioco al massacro, fisico e ideale, contro cui si sentenzia e si festeggia può riproporsi all’infinito sino al naufragio della nazione. Più che analizzare le posizioni del governo islamico e dell’opposizione laica, che pure serve, occorre grattare sotto le maschere e vedere chi davvero vuole un nuovo Egitto e chi lavora solo per sé o per il mantenimento dello statu quo. Il fronte conservatore appare il più numeroso ed è assolutamente trasversale. Su questo dovrebbero pronunciarsi i signori Mursi, Ismail, Fotouh, ElBaradei, Moussa, Sabbahi.
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