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Regole Ue, flessibili per i “grandi” e sotto elezioni

Regole e rapporti di forza non sono mai andati troppo d’accordo. In generale, nella politica internazionale, le regole valgono solo per i più deboli. E se i “forti” non possono rispettarle, beh, si chiuderà un occhio. Vale per i “diritti umani” negli Usa o in Israele, figuriamoci per banali questione di soldi…
Ma se persino IlSole24Ore è costretto a meravigliarsi, allora lo sfregio alle mitiche “regole europee” deve essere davvero grosso.
L’articolo che qui vi riportiamo non lascia troppi spazi a dubbi: la Francia non ce fa a rientrare nel 3% di deficit quest’anno, quindi per il momento cambiano le regole per tutti, garantendo “più tempo” per il rientro se la colpa può essere attribuita – e in gran parte è così – alla recessione internazionale.
Ma vale solo per l’obiettivo del deficit, non per il debito pubblico. Ovvero, si allenta la presa sulla Francia, ma non sull’Italia (e ancor meno per i più piccoli).
In cambio, la Francia insisterà un po’ meno sulla necessità di “misure per la crescita”. E Merkel potrà concentrarsi sulle elezioni politiche senza il pugolo dei francesi che si fanno “interpreti” della sofferenza dei Piigs e – soprattutto – senza contribuire con le proprie mani a una feroce turbolenza dei mercati in piena campagna elettorale. Lasciare che la Francia sforasse il tetto del deficit senza far nulla avrebbe infatti riaperto la stagione della speculazione globale contro l’euro.
Fin qui i calcoli politici, vedremo se fondati o meno (la crisi sembra ferma, sui mercati finanziari, solo grazie a iniezioni di liquidità colossali).
Resta il problema principale: l’Unione Europea è ancora adesso, dopo decenni, poco più che un’alleanza instabile, con tre “grandi” che fanno il bello e cattivo tempo (Gran Bretagna, Germania, Francia), dentro e fuori dall’euro, mentre a tutti gli altri non resta che allinearsi. Questo insieme non strutturato, che è riuscito a creare un “mercato comune” ma non istituzioni continentali democratiche, si infila ora in un pericoloso negoziato per la creazione di un “mercato unico” ancora più grande, insieme agli Stati Uniti. I quali, fra l’altro, hanno l’invidiabile vantaggio di controllare una banca centrale (la Federal Reserve) che stampa moneta a comando, al contrario della Bce.
Così è veramente difficile che “l’insieme” possa tenere. E anche gli osservatori più capaci – come la perspicace Adriana Cerretelli – cominciano a sgranare gli occhi increduli.
“Lo vuole l’Europa”? Ma fateci il piacere…

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Meno rigore meno crescita, lo strano patto franco-tedesco

Adriana Cerretelli

 

Tu, caro François, nonostante la recessione rinunci alla tua crociata europea per la crescita e l’occupazione e accetti per l’Unione un bilancio pluriennale ridotto rispetto all’attuale del 3,5% in termini reali e schiacciato sull’1% del Pil collettivo e io, Angela, in cambio ti garantisco che non sarai perseguitato da Bruxelles né dalle sanzioni del fiscal compact se, come mi anticipi, quest’anno non riuscirai a ridurre al 3% il tuo deficit. Affare fatto, ha risposto François.

Quasi certamente è stato questo, settimana scorsa a Bruxelles, il deal franco-tedesco dietro le quinte del vertice europeo. Non si capirebbe altrimenti la tempestività con la quale il commissario Ue Olli Rehn ha inviato ai 27 ministri Ecofin una lettera per ufficializzare con la grancassa la flessibilità delle nuove regole di governance dell’euro. Flessibilità del resto già attuata nei fatti da qualche mese a beneficio dei tre vigilati speciali, Grecia, Portogallo, Spagna. Tanto più non si capirebbe perché l’occasione naturale per confermare la svolta sarebbe stata il 22, venerdì prossimo, quando proprio Rehn renderà note le nuove previsioni economiche Ue, con tutti i dati aggiornati su economia e finanze dell’Unione, su impegni rispettati e non.

 

Preoccupata di salvaguardare la pax sui mercati e di evitare incidenti di percorso in un anno elettorale, questa volta la Germania della Merkel ha voluto sterilizzare sul nascere qualsiasi turbativa indotta da una Francia ribelle alle regole: un’eventuale destabilizzazione francese dell’euro sarebbe infatti insostenibile da tutti i punti di vista. Di qui la richiesta del cancelliere, prontamente eseguita a Bruxelles, di mettere in bella copia una certa limatura delle regole anti-deficit. Esplicitato nel giorno in cui Parigi annunciava di non essere in grado di tagliare quest’anno il traguardo del 3%, il codice Rehn ribadisce che, se un Paese ottempera agli impegni strutturali concordati ma i suoi obiettivi anti-deficit sono compromessi da un inatteso calo nella crescita economica, potrà ottenere tempi supplementari per raggiungerli. Sfuggendo così alle previste sanzioni.

E il debito, l’altra faccia della nuova disciplina punitiva del fiscal compact che tocca molto da vicino l’Italia, la quale invece vanta un deficit ormai in linea, tanto che in aprile dovrebbe uscire dalla procedura per disavanzo eccessivo?
Niente flessibilità parallela e aggiuntiva per ora, tolta quella già inclusa nel patto dove si dice che nell’abbattimento del volume del debito (-20% annuo della differenza tra la percentuale accumulata e la soglia del 60% di Maastricht) vanno presi in conto anche «gli altri fattori rilevanti».
Al contrario. Nella lettera il commissario Ue cita il debito solo per ribadire che nell’Unione è salito «dal 60% pre-crisi al 90% attuale» cioè a un livello oltre il quale, per consenso unanime, «ha effetti negativi sul dinamismo economico che si traducono in un declino della crescita per molti anni». Implicitamente è un modo per mettere le mani avanti e dire che la riduzione è urgente e ben poco negoziabile (almeno fino a quando il problema resterà essenzialmente italiano).

In soldoni, come è noto, questo significa che l’Italia in recessione – l’anno scorso il Pil è crollato del 2,2% secondo gli ultimi dati Istat – deve prepararsi a tagliare al ritmo di 40 miliardi all’anno il suo debito (in ascesa) per i prossimi 20 anni. Come?
Nonostante il forte calo della sua prosperità relativa, scesa 4 punti sotto la media europea quando ancora nel 2005 era 5 punti sopra, il nostro Paese è uscito dall’ultimo vertice Ue come ci era entrato, cioè come terzo contribuente netto del bilancio comunitario con un deficit annuo di 3,8 miliardi che sul settennato 2014-20 fanno 26,6 miliardi.

Non è un fardello irrilevante quando sulla testa pende anche la mannaia europea sul debito. Quando Eurostat calcola nello 0,6% la recessione dell’eurozona nell’ultimo trimestre 2012, con 0,6% per Germania, 0,4% per Francia e 0,9% per l’Italia. Quando l’Fmi moltiplica i mea culpa per aver sbagliato a valutare l’impatto negativo delle politiche di austerità nell’eurosud. Quando uno studio Caritas sulle sue conseguenze in Grecia, Portogallo, Spagna, Irlanda e Italia denuncia il forte incremento della povertà invitando i governi a evitare nuovo rigore e ad allertare «un sistema di sorveglianza sociale oltre che fiscale» di queste politiche.

Verrebbe voglia di salutare con sollievo il ribadito realismo europeo nella governance dell’eurozona se non si portasse dietro, nonostante le smentite dovute di Rehn, alcune ombre: il sospetto del solito doppiopesismo che spacca l’Europa da Nord a Sud, con la solerzia tedesca sempre pronta a materializzarsi per Parigi e i suoi squilibri, non per amore ma per forza. La solitudine dell’Italia costretta a fare i conti con un peso del passato che rischia di schiacciarla senza altrettanta flessibilità interpretativa nell’applicazione delle regole sottoscritte. Che però per ora non si vede.

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