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Crimini di guerra in Afghanistan, il passo alterno delle Nazioni Unite

Il Saajs (Social Association of Afghan Justice Seekers) si occupa dal 2007 di crimini di guerra, soprattutto di vittime di quella civile e del governo talebano. Weeda Ahamad e’ la responsabile dell’associazione e ha attorno uno staff  composto non solo di giovani che stanno conoscendo le miserie  della nuova occupazione ma, non senza difficilta’,  raccolgono le testimonianze delle violenze trascorse.  “E’ un lavoro difficile – commenta Weeda – le persone che pure hanno subito tanti soprusi cercano di rimuovere e dimenticare oppure non si fidano. Quando all’inizio bussavamo alle porte non ci aprivano perche’ pensavano fossimo agenti del governo. Molti non vogliono puntare il dito su guerrafondai e assassini  perche’ continuano a temerli per il ruolo istituzionale oggi ricoperto”. Del resto basta ascoltare il racconto di una di queste persone, il signor Esatollah, che a un certo punto ha iniziato a collaborare col Saajs. L’uomo, anche per l’età, é il decano gruppo. Grazie al radicamento nella citta’ vecchia ha raccolto da solo  400 atti d’accusa che costituiscono quasi la meta’ del dossier dell’associazione. Durante il conflitto civile compreso fra il 1992 e il 1996 l’intera Kabul visse un assedio peggiore di quello che in contemoporanea subiva Sarajevo. Li’ morirono in 12.000 a Kabul fra le 60 e le 80.000 persone. La citta’ bassa era continuamente battuta dall’artiglieria che vedeva contrapposte le truppe dell’unico Signore della guerra osannato come un eroe nazionale, Ahmad Massoud, disposte a ovest sull’Aasmaee Mountain e quelle guidate da Rasul Sayyaf schierate sull’altura opposta. Posizioni mantenute a lungo mietendo vittime e non erano gli unici comandanti a combattersi.

Ricorda Esatollah “Ho conosciuto la violenza gia’ all’epoca dell’occupazione sovietica, avevo un’officina meccanica e diversi lavoranti. Certo dal 1992 la situazione e’ peggiorata. Il gruppo Wahdat-i Islami piombo’ nel quartiere dove vivevo, seguirono distruzioni di negozi, botteghe artigiane e officine. Seppi che la mia era stata devastata da uomini di Dostum. Non potevo, non potevamo lavorare, trovare cibo era difficile, si rischiava la vita a ogni uscita  ma noi uomini dovevamo nutrire le famiglie. Eravamo fra due fuochi, non si poteva nemmeno fuggire  e poi per andar dove? Quando una granata colpi’  la mia casa e il solaio mi crollo’ addosso ferendomi pensai al peggio che comunque arrivo’ perche’ mia figlia rimase sotto le macerie. Allora presi mia moglie che piangeva per il lutto e tornai nella zona d’origine. Svernammo al nord per alcuni anni, oggi sono claudicante ma mi ritengo fortunato.  Tornai a Kabul quando Karzai prese il potere. All’inizio credevo in lui perche’ aveva fermato il conflitto etnico-religioso e limitato gli abusi delle bande, col tempo mi sono ricreduto. Pero’ e’ un bene che, al di la’ di qualche attentato, la capitale sia tranquilla, altrove tuttora si combatte”. Esatollah ammette che la maggior parte delle persone intervistate non ha fiducia nella giustizia e nel ripristino d’una vera legalita’. Conclude con un proverbio: “La persona ferita ha paura anche della corda perche’ puo’ sembrargli un serpente”. Comunque il lavoro del Saajs prosegue. Un secondo progetto e’ stato avviato l’anno scorso attrorno al tema della tortura sia con la cerchia dei testimoni gia’ conosciuti, sia con persone nuove.

Dichiara Weeda: “Questo tema, tanto dibattuto dalla comunita’ internazionale, trova uno scarso sostegno nel nostro Paese. Cosi’ ci troviamo davanti a un doppio ostacolo, quello interno di politici e anche di intellettuali che non ci sostengono affatto lo davamo per scontato, ma speravamo che talune forze  progressiste e certe istituzioni ci potessero offrire un aiuto maggiore. La delusione maggiore viene da organismi famosi come l’Unama (United Nations Assistence Mission in Afghanistan) che dopo un’iniziale apertura hanno mutato atteggiamento. Ora durante gli incontri ridacchiano, capiamo che puntano a perder tempo, a far cadere i  progetti, insomma praticano una sorta di boicottaggio. E’ la conseguenza delle scelte geopolitiche, che vedono gli Stati Uniti accettare gente come Fahim nelle piu’ alte cariche del Paese, e posizioni accondiscendenti anche all’entrata talebana nell’establishment dell’Afghanistan. Ci resta il Tribunale Internazionale dell’Aja con cui abbiamo preso contatti anche per sottoporgli un solo caso. Dopo qualche attesa la risposta e’ stata negativa, poiche’ Karzai nel 2002 aveva firmato un accordo sui crimini di guerra che ammette indagini solo da quella data in poi. Tutto il pregresso sarebbe imperseguibile. Eppure non vogliamo fermarci. Un ulteriore tentativo, sempre rivolto al Tribunale dell’Aja, lo stiamo facendo assieme a 26 associazioni che s’occupano di giustizia transnazionale, sebbene siano poche quelle che risultano determinate ad andare a fondo”. Un aiuto potrebbe venire anche da strutture famosissime e Ong che si mobilitano moltissimo quando i temi di tortura e abusi riguardano altre nazioni, ma per l’Afghanistan rallentano il passo o addirittura frenano.

Da Kabul, Enrico Campofreda, 16 marzo 2013

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