GERUSALEMME
Da due anni e mezzo la cronaca riferiva lo stillicidio quotidiano di vite umane, in gran parte palestinesi ma anche israeliane. Eravamo nel pieno della seconda Intifada contro l’occupazione militare e un anno prima Israele aveva rioccupato le principali città palestinesi con l’offensiva «Muraglia di Difesa» facendo centinaia di morti. Eppure quell’immenso bagno di sangue cominciato nel settembre del 2000, non fece passare inosservata la morte di Rachel Corrie, una ragazza americana poco appariscente, timida ma dal carattere forte, come dimostravano le mail che inviava ai genitori.
Aprì invece al mondo la realtà dei tanti giovani di ogni parte del pianeta, anche degli Stati uniti alleati di ferro di Israele, che andavano a Gaza e in Cisgiordania per quella che dieci anni fa era nota come «protezione passiva», ossia provare a prevenire senza violenza e resistenza fisica attiva, con la loro semplice presenza, la demolizione di abitazioni, gli spari dell’esercito israeliano su strade e quartieri densamente popolati e gli arresti indiscriminati. Come Rachel Corrie altri di questi attivisti e giornalisti persero in quegli anni la vita, tra questi Tom Hurndall, colpito da un cecchino alla testa. Anche Vittorio Arrigoni faceva parte dell’Ism.
Per le autorità di Israele questi volontari internazionali altro non sono che «amici dei terroristi» (cioè i palestinesi) e ai valichi di frontiera, allora come oggi, sono attuate misure volte ad impedire loro «l’ingresso nel paese», anche se questi giovani in realtà non vanno in Israele ma nei Territori occupati. Hussein Hamudi, 21 anni di Gaza city, era solo un ragazzino nel 2003.
La memoria di Rachel Corrie però è stampata nella sua anima. «Rachel ci ha insegnato qualcosa di molto importante – dice Hussein, diventato anche lui un’attivista -, che l’occupazione israeliana teme ogni forma di resistenza, anche la più pacifica. Rachel ci ha detto che tutti, palestinesi e stranieri, dobbiamo e possiamo dare il nostro contributo per una causa giusta».
Hussein oggi parteciperà alle commemorazioni solenni che il «Centro Rachel Corrie» ha organizzato a Rafah. Un’occasione che servirà a rinnovare tra i palestinesi la memoria dell’attivista statunitense e per ricordare quanto accadeva in quegli anni.
Fra il 2000 e il 2005 l’esercito israeliano ha distrutto 1.600 edifici a Rafah per costruire un alto muro lungo la frontiera con l’Egitto, lasciando senza tetto circa il 10% degli abitanti della terza città di Gaza. Nel 2004 le demolizioni a Rafah raggiunsero la media di 100 abitazioni al mese.
Le agenzie dell’Onu, Unrwa e Ocha, denunciarono una aperta violazione del diritto internazionale. A gennaio 2003, quando Rachel Corrie arrivò a Rafah, gli israeliani distruggevano in media 12 case la settimana. I volontari dell’Ism erano gli unici che, con la loro presenza, cercavano di impedire le demolizioni.
Per Israele l’uccisione dell’attivista americana è stata solo di un «incidente». Una sentenza dello scorso agosto, al termine di un lungo processo civile presso un tribunale di Haifa, voluto dai genitori della giovane americana, afferma che Rachel «Si mise da sola e volontariamente in pericolo. Fu un incidente da lei stessa provocato». I giudici hanno dato pieno credito alla versione dell’accaduto fornita dall’autista della ruspa militare DR9, il soldato Y.P. (la sua identità non è mai stata rivelata). Nella testimonianza, alla fine del 2010, Y.P., confermò che erano presenti civili mentre «operava» la ruspa il 16 marzo 2003. Ma che non smise di «lavorare» perché aveva ricevuto l’ordine di continuare: «Io sono solo un soldato…non ero io a dare gli ordini».
Rachel Corrie, con adosso una giacca arancione fosforescente, Y.P. disse non averla vista e di non aver udito i suoi compagni urlare quando la giovane finì sotto i cingoli. I giudici hanno ritenuto credibile la testimonianza di Y.P. sebbene le sue affermazioni sotto giuramento hanno in qualche caso contraddetto la deposizione firmata che fornì agli investigatori militari nel 2003. O forse hanno semplicemente accettato la «spiegazione politica» dell’accaduto che diede dal banco dei testimoni il colonnello «Yossi», uno degli ufficiali responsabili a quel tempo per la zona di Rafah: «non ci sono civili in una zona di guerra».
I civili invece sono sempre civili, in tempo di guerra e in tempo di pace, ricordò sdegnato dopo la sentenza Richard Falk, relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei Territori occupati palestinesi. «La decisione del giudice rappresenta una sconfitta per la giustizia» nonché «una vittoria per l’impunità dei militari israeliani», «le Convenzioni di Ginevra, impongono alla potenza occupante di proteggere i civili», commentò Falk.
I genitori di Rachel accolsero con dolore e frustrazione la decisione della corte. Ma non con rassegnazione. «Tanti ci chiedono che cosa ci aspettassimo da questo processo. Non è che ci aspettassimo giustizia, la pretendiamo. Penso che ognuno debba pretenderla, altrimenti la giustizia non ci sarà e semplicemente morirà», dichiarò Craig Corrie, il padre della giovane americana.
Chi oggi andrà a Rafah non accorda alcua credibilità a quella sentenza. «Rachel sarà mai dimenticata – spiega Hussein Hamodi – Rachel è una di noi». Di sicuro non la dimenticheranno i fratelli Nasrallah, un farmacista e un contabile, che abitavano con mogli e figli nelle case che la giovane americana cercò di salvare quel 16 marzo di dieci anni fa pagando con la sua vita. «A noi – dicono – non è stata uccisa una amica, è stata uccisa una figlia».
da “il manifesto”
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