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Egitto-Etiopia, il Nilo conteso

A opporsi due mastodonti dell’Africa Sahariana: Egitto e Sudan, nazioni a spiccata guida islamica, sebbene sia prevalentemente il Cairo a lanciare in questi giorni un accorato allarme che lascia aperta la porta anche a soluzioni drastiche.
L’opera è in cantiere da due anni, ora riceve un’accelerazione e rientra in quell’impulso che vede alcune nazioni subsahariane (Etiopia, Tanzania, Uganda) lanciate verso un riscatto economico.
I mercati chiamano la triade “tigri africane”, nell’ottimistica definizione c’è soprattutto il miglioramento di precedenti disperate condizioni che nel caso etiopico vedevano appena cinque anni fa il Paese ricoprire la 155^ posizione mondiale per povertà. Ovviamente in queste risalite hanno un ruolo centrale i prestiti-capestro, stavolta della Bce, e i capitali (fra i 5 e 6 miliari) introdotti da aziende cinesi in cambio di altri beni preziosi. Lì trovano oro, platino e un po’ di petrolio che non guasta mai. A guadagnarci è anche l’italiana Salini, ditta costruttrice dell’impianto di quasi 10.000 megawatt pari a sei medie centrali nucleari.

Due rami contesi Il progetto ha avuto sviluppi giuridico-diplomatici sebbene col patto di Entebbe (2010) – in sostituzione d’un accordo coloniale del 1959 che assegnava a Egitto e Sudan la gran parte dello sfruttamento delle acque del Nilo (Bianco e Azzurro) – per Etiopia, Ruanda, Tanzania, Congo, Uganda, Kenya, Burundi e Sud Sudan non era finora cambiato granché. In questi giorni il parlamento di Adis Abeba ha ratificato all’unanimità la conclusione del piano lavori e questo fa fibrillare la politica interna ed estera egiziana. Al Cairo ilministro Mohamed Kamel Amr, che fra una settimana andrà in missione di ”pace” in Etiopia, fa intendere come il suo Paese non esclude un’applicazione del patto ma vuole che s’inserisca la clausola: “non si dovrà incrinare la sicurezza e l’uso corrente dell’acqua delle altre nazioni del Nilo”. Fatta salva una revisione dell’iniziale ferma opposizione del governo di Khartoum chi resta sul piede di guerra è solo l’Egitto. Che ha mosso il presidente Mursi in persona in un’assise ospitata dal partito della Fratellanza e allargata a tutte le componenti politiche perché “attorno a questo pericolo sociale ed economico la nazione deve accantonare le divisioni”.

Sete d’energia All’assemblea hanno risposto: il gruppo fondamentalista Al-Gamaa Al-Islamiya e una rappresentanza dei sindacati professionali, tutti preoccupati e portatori d’istanze varie. Per i sindacalisti il progetto si dovrebbe approfondire col contribuito di Egitto e Sudan, trovando quelle soluzioni diplomatiche auspicate dal capo dell’Unione Africana Dlamini Zuma. Al-Islamya addita le interferenze internazionali su elementi vitali della quotidianità, in effetti la penuria d’acqua in alcuni governatorati vicinissimi alla capitale come Giza rappresentarono le prime proteste popolari con cui un Mursi appena insediato dovette fare i conti. Ma altra Africa ha sete: le non lontane carestie di Etiopia e Sudan sono uno spettro non dimenticato, per quanto in questo progetto l’acqua del Nilo sostiene quasi unicamente il bisogno d’energia. Comunque Abdel-Ghani di Al-Islamya riferisce di possibili esportazioni d’acqua in Israele con cui il governo etiopico ha buoni rapporti non solo economici. Taluni animi riscaldati propongono di creare un Comitato per la sicurezza della nazione “da difendere col sangue”. Per ora Mursi ha principalmente fatto appello a un’unità politica attorno al tema.

Ritorsioni Eppure un incontro che doveva essere riservato è finito addirittura in diretta tivù con esponenti egiziani di maggioranza e opposizione a straparlare ipotizzando interventi di attacco alla diga. Se sia stata una gaffe o una minaccia per nulla mascherata si vedrà, certo il premier etiopico Hailemariam Desalegn fa capire che solo una virata di follìa potrebbe spingere il Cairo a forzare la mano con una soluzione militare. Gli esperti del tema già srotolano ciò che l’Egitto potrebbe rischiare. La soluzione di forza è doppiamente improbabile sia per la censura internazionale con tanto d’intervento dissuasivo e sanzioni da subire, sia per la lontananza fra i due territori. L’Egitto ha un mastodontico esercito di terra, non brilla però nell’aviazione necessaria per colpire a distanza. Altra ipotsi potrebbe essere il sabotaggio di quanto finora costruito da attuare in territorio sudanese a opera di propri agenti oppure di terroristi veri o camuffati. L’azione però coinvolgerebbe indirettamente un Paese che negli ultimi tempi sulla vicenda s’è ammorbidito, anche perché vuole costruire nuove dighe sul suo territorio. Senza contare che le strutture sono sorvegliate, non solo dai militari locali, ma da varie Intelligence.

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