La balcanizzazione della Libia imposta dai bombardamenti della Nato, gli scontri interni, la vendita al nero delle risorse energetiche e gli scioperi nel settore energetico, stanno provocando una situazione paradossale: un paese esportatore adesso è costretto ad importare sia gas che petrolio dall’estero.
Un lungo servizio del quotidiano economico Sole 24 Ore, riferisce che una ondata di scioperi ha investito la Cirenaica, dove si trovano i maggiori giacimenti di greggio e gas, e la produzione petrolifera nazionale ha accusato un crollo verticale: in meno di due mesi sarebbe così passata da punte di 1,5-1,6 milioni di barili al giorno (mbg), vale a dire ai livelli precedenti la rivoluzione, a meno di 100mila barili. Anche il settore del gas naturale ha subito la stessa sorte. I principali giacimenti della Cirenaica sono chiusi. Per come si sono messe le cose, la loro riapertura non sembra imminente. La denuncia arriva dal Governo di Tripoli, e, secondo alcune fonti informate, le cifre del crollo sarebbero eccessive. Ma anche se si trattasse di una caduta produttiva a 300mila barili al giorno, si tratterebbe pur sempre di un vistoso – disastroso – crollo.
Per il Paese che vanta le maggiori riserve di petrolio dell’Africa, ed è il terzo esportatore di gas naturale afiricano, essere costretti ad acquistare gasolio e olio combustibile dai Paesi vicini per mantenere in vita le centrali può suonare come un paradosso. Ma da alcuni giorni il Governo, se non vuole rimanere a corto di energia elettrica, non sembra aver altre scelte. Ancora più insolito per un Paese dove la benzina è sempre stata abbondante, e costa meno dell’acqua, è assistere a quelle code interminabili di auto che in questi giorni di fine estate si stanno formando davanti alle stazioni di servizio della capitale.
L’ondata di scioperi era iniziata a luglio ed è proseguita in agosto: scontenti per il mancato pagamento di salari e arretrati, e per la minaccia del Governo di voler sospendere i loro pagamenti, l’organizzazione che gestisce la sicurezza degli impianti e dei giacimenti nella Libia Orientale, il Petroleum facilities guard (Pfg), aveva indetto una serie di scioperi, culminati nella chiusura dei due principali terminal nazionali per l’export del petrolio. In verità la Pfg è assomiglia ad una “holding” che raccoglie diverse milizie orientali, molte delle quali avevano diretto la rivolta contro Gheddafi. E che si sarebbero assunte di “propria iniziativa” la gestione della sicurezza di molti impianti. È legittimo ipotizzare che, per non subire atti di ritorsione e in assenza di alternative concrete, le major energetiche straniere abbiano accettato la loro presenza. Agli occhi delle milizie il governo è reo di gravi atti corruzione. Il fragile esecutivo guidato dal premier Ali Zeidan respinge da tempo le accuse e contrattacca: è la Pfg ad aver venduto il petrolio in nero, arrecando un danno incalcolabile alla nuova Libia. Minacciando di ricorrere all’aviazione, ha già schierato la marina per impedire alle navi “illegali” di lasciare le coste della Cirenaica.
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