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Il Messico in piazza contro il neoliberismo autoritario

A meno di un anno dall’insediamento di Peña Nieto alla presidenza del Messico, l’apertura della stagione delle cosidette riforme strutturali e la risposta repressiva data alle proteste sembrano confermare i timori di chi pensava che il ritorno al potere del PRI potesse determinare una svolta in senso liberista e autoritario. Per i movimenti, infatti, é sempre piú difficile manifestare il proprio dissenso, e diverse organizzazioni per la difesa dei diritti umani denunciano una preoccupante restrizione degli spazi di agibilitá democratica nel paese.

Lo sanno bene gli insegnanti della CNTE (Cordinamento nazionale dei lavoratori dell’educazione), da nove mesi in lotta contro la riforma educativa e piú volte vittime della mano dura dei governi statali e federale negli stati di Oaxaca, Campeche, Veracruz e Guerrero. Nella capitale, invece, il movimento coagulatosi intorno alla battaglia degli insegnanti é stato duramente represso in almeno tre occasioni, durante le quali, con uno stile che é diventato ormai una preoccupante consuetudine, la polizia ha gestito la piazza in modo aggressivo e provocatorio, distinguendosi per un uso eccessivo e indiscriminato della forza, oltre che per la pratica della caccia all’uomo e le detenzioni arbitrarie.

Dopo gli scontri del primo settembre e lo sgombero del #13S (quando i maestri sono stati brutalmente allontanati dalla piazza principale della cittá, occupata da 4 mesi contro la riforma), la giornata del 2 ottobre, che ha visto un partecipatissimo corteo sfilare attraverso la capitale blindata per ricordare la strage di Tlatelolco del 1968 e chiedere l’abrogazione della riforma educativa, é l’esempio piú recente di come il diritto a manifestare venga sempre piú spesso messo in discussione, a Cittá del Messico e nel resto del paese, da quando Mancera e Peña Nieto sono, rispettivamente, sindaco e presidente.

L’operazione di polizia ha preso il via la sera precedente il corteo con la militarizzione di vari punti della cittá e la creazione di diverse zone rosse nel centro storico. Le provocazioni poliziesche e gli arresti sono iniziati ancora prima che la manifestazione muovesse i primi passi: alla fermata della metro di Tlatelolco, dove vari cordoni di polizia hanno accolto i manifestanti cercando di perquisire gli zaini delle “persone sospette” a suon di spintoni e colpi di scudi; e nelle vie del centro, dove, dopo aver fermato un autobus di linea che nulla aveva a che fare con la mobilitazione, gli agenti della capitale hanno fatto scendere i giovani dal look piú alternativo per poi arrestarli e presentarli a manifestazione finita come i facinorosi di turno.

Malgrado le richieste degli organizzatori, un imponente spiegamento di forze dell’ordine – diretto dal capo della giunta progressista in persona e composto da 7 mila poliziotti in assetto antisommossa, tre elicotteri, dron e polizia a cavallo – ha impedito che la manifestazione si concludesse come di consueto in Plaza de la Constitución, il cuore pulsante della capitale tutt’ora recintato e di fatto off-limits per la popolazione a oltre due settimane dello sgombero.

Durante la manifestazione, migliaia di granaderos schierati ai lati del corteo per quasi tutto il percorso hanno marcato a uomo la mobilitazione creando un clima claustrofobico e alimentando inutili tensioni (come del resto é successo di frequente negli ultimi mesi, durante i quali, in piú occasioni, la testa dei cortei é stata costretta a farsi strada spingendo gli scudi degli celerini).

Gli scontri sono iniziati intorno alle 17 in Bellas Artes, nei pressi del centro, quando dallo spezzone anarchico sono partiti sassi e petardi in direzione delle forze dell’ordine che bloccavano l’accesso allo Zocalo. Dopo le prime cariche, secondo un copione ormai diventato classico, il corteo é stato spezzato in due e ed é stata chiusa ogni via di fuga.

A molotov, pietre e petardi lanciati dal bloque negro, i celerini hanno risposto in maniera scomposta sparando lacrimogeni e pallottole di gomma ad altezza uomo e aggredendo chiunque gli capitasse a tiro (manifestanti pacifici, giornalisti, osservatori delle ong, semplici passanti). Dopo un paio d’ore di scontri, il bilancio finale é stato di 88 feriti e102 detenuti, nove dei quali sono stati incarcerati con l’accusa di attacco alla pace pubblica con l’aggravante associativa e oltraggio all’autoritá.  

029Nonostante i mass media abbiano cercato di minimizzare l’entitá della repressione, nei giorni successivi alla manifestazione, svariate organizzazioni (tra le altre, Amnesty International, Reporter Senza Frontiere, Limedhh e Centro Prodh) hanno denunciato brutalitá e abusi polizieschi, che arrivano fino alla tortura dei fermati come dichiarano gli avvocati difensori del collettivo Liga de Avocados Primero de Diciembre.

Arresti compiuti da agenti in borghese infiltrati nel corteo, detenzioni arbitrarie fatte lontano dal luogo degli eventi, osservatori per i diritti umani aggrediti nonostante fossero chiaramente identificabili, gruppi di manifestanti braccati e manganellati senza motivo apparente. Sono tantissime le denunce fatte e bastano pochi minuti in rete per trovare ricostruzioni che ribaltano la vulgata ufficiale che responsabilizza delle violenze solo i giovani appartenenti al bloque negro, dipingendoli come vandali pericolosi e antisociali.

Grazie all’operazione #RompeElMiedo (RompiLaPaura), l’associazione Article 19 insieme a media indipendenti hanno potuto documentare 23 aggressioni ai danni di giornalisti, “il 90% delle quali é stata perpetuata da elementi della polizia”. Questa, si legge nel rapporto del Centro Prodh, ha agito “in modo illegale”, usando la forza “in maniera indiscriminata” e aggredendo “in modo selettivo tutti coloro che documentavano gli abusi”. I mediattivisti, in particolare, paiono dunque essere nel mirino della repressione, tanto che vengono spesso arrestati. Magari proprio mentre documentano una detenzione arbitraria, come é successo a Gustavo Ruiz, di Subversiones, Estela Morales, di Regeneracón Radio, e Pavel Alejandro, di Multimedia Cronopios durante le proteste del primo settembre #1S.

Per quanto riguarda l’aspetto giudiziario della faccenda, va segnalato che, almeno dal primo settembre, i magistrati tendono a rendere piú difficile il rilascio dei detenuti, fissando cauzioni sempre piú alte o formulando accuse piú gravi per negare il diritto alla cauzione. Inoltre, amici e familiari dei detenuti, che da 5 giorni hanno installato un presidio permanente di fronte al Reclusorio Norte, denunciano la costante violazione dei diritti della difesa e l’atteggiamento intimidatorio della polizia nelle tre manifestazioni per il rilascio dei detenuti tenutesi in questi giorni.

Sebbene abbia raggiunto l’onore delle cronache da circa un mese, la lotta degli insegnanti contro la riforma educativa dura almeno dallo scorso febbraio. Nonostante la repressione sia via via cresciuta, non é riuscita a fermare le iniziative di protesta che si sono intensificate su tutto il territorio nazionale, dove si moltiplicano cortei, presidi, blocchi stradali e occupazioni di edifici pubblici. D’altra parte, come dimostrato dalle adesioni alle giornate del Paro Civico Nacional lanciate dalla CNTE e dalla stessa giornata del #2OCT, la battaglia contro la riforma ha guadagnato consensi all’interno della popolazione, coinvolgendo anche altri settori della societá.

Studenti medi e universitari, sindacati indipendenti, organizzazioni della sinistra piú o meno radicale, nonché accademici, intellettuali, comitati di genitori e singoli individui indignati e solidali si sono stretti attorno agli insegnanti, facendo propria la battaglia contro una riforma che precarizza le condizioni del lavoro docente e apre la strada alla privatizzazione dell’istruzione.

Dopo settimane di criminalizzazione della protesta sociale ed in particolare delle figure del docente e del giovane anarchico incappucciato, le mobilitazioni di queste settimane fanno ben sperare, in un Messico in cui governo e poteri forti, con la complicitá delle principali forze politiche, paiono aver scelto di rispondere con il pugno di ferro alle resistenze che si si stanno dando nel paese.

É difficile fare previsioni sul futuro del conflitto, tuttavia, per quanto i principali mezzi di comunicazione festeggino la decisione dei maestri in lotta di riprendere le lezioni il prossimo 14 ottobre, i docenti dissidenti sono riusciti a rompere il recinto mediatico che li isolava, dimostrando che la riforma educativa non riguarda solo la loro categoria ma il futuro del paese, e indicando nell’opposizione alle cosidette riforme strutturali un possibile terreno di ricomposizione delle lotte.

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