“Chi è causa del suo mal pianga se stesso” recita un vecchio adagio. Potremmo commentare così le preoccupazioni e le ansie dei paesi occidentali e delle compagnie petrolifere che, in nome del controllo diretto del petrolio e del gas libici hanno sostenuto un tragico intervento militare che, mascherato da ennesima ‘guerra umanitaria’, ha causato la distruzione della Libia. Mettendo paradossalmente a rischio proprio ciò a cui miravano multinazionali e cancellerie: impossessarsi di tutte le risorse libiche senza dover sottostare ai capricci di Gheddafi, che da dittatore ha comunque sempre redistribuito una gran parte dei proventi delle esportazioni del ‘suo’ petrolio ad una popolazione ora piombata in un eterno inverno.
Ed è per questo che non possiamo utilizzare il vecchio adagio di cui sopra. Perché se da un certo punto di vista c’è da rallegrarsi per le preoccupazioni di Eni e company, dall’altra parte gli apprendisti stregoni hanno già causato un disastro enorme in nord Africa: smembrando un paese, consegnando armi e potere a milizie composte di tagliagole nel migliore dei casi o integralisti islamisti in altri, causando l’espulsione violenta di centinaia di migliaia di migranti africani, migliaia di omicidi, violazione dei diritti umani, civili e politici su vasta scala. Ora ad impossessarsi dei proventi del petrolio sono pochi signori della guerra, e non più la popolazione libica. Più la competizione e la conflittualità aumentano, più il controllo dei pozzi e dei terminal diventa fondamentale per i capi clan.
Ed ora anche le grandi corporation dell’oro nero sono in difficoltà, e l’isteria non risolverà il problema. Per capire quanto sono preoccupati gli ambienti industriali e finanziari italiani basta leggere gli articoli e i reportage di due giornali dell’ambiente – Sole 24 Ore e La Stampa – che riportiamo qui sotto.
Davvero un capolavoro di geopolitica, complimenti.
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Libia sull’orlo del caos: crolla l’export di petrolio, major in fuga. L’Eni intenzionata a restare
di Roberto Bongiorni (Il Sole 24 ore)
Per un Paese che dalle vendite di petrolio e gas ricava il 96% delle entrate governative e il 97% dell’export (in valore), non ci poteva essere notizia peggiore. L’ennesimo crollo delle esportazioni dalla Libia rappresenta non solo un danno ingente per il fragile Governo di Tripoli, ma anche un fattore destabilizzante – e potenzialmente rialzista – per i mercati petroliferi mondiali. Ciò che sta avvenendo sulla sponda sud del Mediterraneo è motivo di grande preoccupazione anche per l’Italia, il Paese che più degli altri aveva ricucito con successo il cordone ombelicale energetico che lo lega da decenni all’ex regno di Muammar Gheddafi. Già nel gennaio del 2013, quindici mesi dopo la morte di Gheddafi, la Libia forniva all’Italia il 23% circa delle sue importazioni, una quota percentuale simile ai livelli precedenti la rivolta scoppiata nel febbraio del 2011. Secondo gli ultimi dati dell’Unione petrolifera, a settembre le importazioni da Tripoli sono cadute a 341mila tonnellate di greggio. Il calo rispetto alle 1.270 tonnellate acquistate in maggio parla da solo.
L’Eni è storicamente il primo operatore straniero in Libia. Poco dopo la fine della rivolta la major energetica italiana era riuscita a riavviare l’export di gas. E aveva le carte in regola per aggiudicarsi alcuni dei nuovi contratti di esplorazione che dovrebbero essere assegnati l’anno prossimo.
Disordini permettendo. Perché l’ultimo “effetto collaterale” della primavera incompiuta che sta paralizzando la “nuova Libia” è quello che tutti speravano non si avverasse mai: un duro colpo assestato all’industria petrolifera.
Per come si stavano mettendo le cose, forse c’era da aspettarselo. Eppure l’inizio era stato più che promettente. A dispetto del pessimismo mostrato dagli analisti internazionali, la rinascita del settore energetico libico aveva sorpreso per la sua capacità di ripresa. Tanto che, nell’ottobre del 2012, la compagnia petrolifera statale, la Noc, aveva annunciato che la produzione era ritornata ai livelli precedenti la rivolta. Dopo un periodo di incertezza caratterizzato da alti e bassi, alla fine dello scorso luglio la situazione è precipitata. Una serie di scioperi e proteste ha paralizzato l’attività dei terminali per l’export.
In ottobre il premier libico Ali Zeidan è in parte riuscito a ricucire lo strappo con le milizie ribelli che gestiscono la sicurezza degli impianti, riportando la produzione intorno ai 500-600mila barili. Ma nel corso dello scorso week end una nuova ondata di proteste e di disordini ha nuovamente travolto i porti e gli impianti, estendendosi anche nelle regioni occidentali.
Secondo fonti libiche consultate dall’agenzia Reuters lunedì si è verificato un crollo verticale delle esportazioni, cadute a 90mila barili al giorno. Per avere un’idea basti pensare che prima dell’estate la Libia vendeva all’estero 1,2 milioni di barili al giorno.
Libia a rischio caos: le milizie controllano i terminal petroliferi e le major scappano
Riccardo Barlaam (Il Sole 24 Ore)
La Libia, principale fornitore di petrolio italiano, è un paese sull’orlo del caos. La tanto sospirata primavera araba, non è mai arrivata dopo la fine del regime di Gheddafi, ormai più di due anni fa. Il Governo centrale è debolissimo e non ha più il controllo del territorio. Le milizie spadroneggiano e da tre mesi controllano gran parte dei terminal petroliferi e dei giacimenti, condizionando la produzione di greggio e di gas che è al 30-40% delle possibilità. La produzione di greggio è scesa da 1,4 milioni di barili al giorno a circa 600 mila al giorno. Il blocco si traduce già in miliardi di dollari di mancati introiti per il governo libico e le compagnie petrolifere straniere. Anche Lampedusa e i suoi problemi dipendono direttamente da questa situazione di incertezza: i barconi di trafficanti di uomini partono dalle coste libiche quando e come vogliono. L’episodio avvenuto qualche settimana fa del sequestro per qualche ora del premier Ali Zeidan, che è stato rapito dai miliziani davanti al suo albergo in centro a Tripoli, nonostante la presenza delle guardie del corpo, è stato l’ultima azione dimostrativa dei miliziani, quasi una beffa per il potere politico. Un episodio che testimonia l’incapacità del governo attuale di garantire la sicurezza del paese.
Proprio per la mancanza di sicurezza diverse major petrolifere sono state costrette a bloccare o a limitare comunque fortemente la produzione di greggio e di gas. L’Eni da qualche giorno è stata costretta a interrompere il gasdotto di Wafa. Sabato scorso un gruppo di miliziani berberi ha occupato il terminal di Mellitha e ora minaccia di chiudere del tutto Greenstreem, il gasdotto che porta il gas in Italia, passando da Gela. La società americana Marathon Oil sta considerando di lasciare la Libia: vuol vendere tutte le sue partecipazioni nella società libica Waha Oil Company, che ha una produzione di 350mila barili di petrolio giornalieri: i cinesi affamati di materie prime, che non hanno significativi investimenti in Libia, sarebbero già pronti a farsi avanti. Sulla decisione annunciata di Marathon Oil di lasciare le ricche riserve petrolifere, molte ancora inesplorate, ha pesato il blocco che dura ormai da luglio di Es Sider, il principale terminal petrolifero del paese. L’uscita di scena della major Usa segue quella di ExxonMobil, che lo scorso mese ha detto che la situazione della sicurezza non giustifica una grande presenza della società in Libia. Non è tutto. La spagnola Repsol è stata costretta a fermare dopo l’occupazione dei miliziani tuareg del terminal petrolifero di Marsa Hariga. Royal Dutch Shell lo scorso anno ha abbandonato due blocchi petroliferi, dopo i risultati deludenti della produzione.
Il problema del controllo del territorio e del disarmo delle milizie è centrale, anche se non si vede come possa avvenire. C’è una missione internazionale, tra l’altro, che comprende anche un contingente di carabinieri, per aiutare il governo libico a formare la polizia locale. E per aiutarla a disarmare le milizie. Una missione impossibile. E’ di questi giorni la notizia di un Governo autonomo della Cirenaica, creato da Ibrahim Jadhran, il giovane e fantomatico capo delle Petroleum facilities guard, i miliziani che hanno in mano il pallino della produzione petrolifera, con le occupazioni e le incursioni di questi mesi. È in corso, in poche parole, una lotta neanche troppo sotto traccia ormai tra le tribù libiche delle tre regioni Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, che chiedono più poteri e una parte degli introiti petroliferi, e il potere centrale sempre più delegittimato.
Oltre alle tensioni con le milizie e le tribù ci sono anche i timori per la crescita del movimento islamista, le brigate di Ansar al-Shariah, quelle accusate per l’attentato all’ambasciata Usa di Bengasi, che sono molto forti soprattutto nelle zone interne del paese. Gli islamisti libici da un lato sono ispirati al movimento dei Fratelli musulmani egiziani, più orientati quindi alle politiche sociali ed economiche per rispondere alle esigenze della gente. Dall’altro però, con la diffusione delle armi fuori controllo, c’è un aumento di influenza della parte combattente del movimento, che si rifà ad al-Qaeda e ai movimenti armati del vicino Mali e che sembra possano contare sui finanziamenti che arrivano dal Qatar.
La transizione libica è un processo più complesso di quello che si poteva sperare all’indomani della caduta di Gheddafi, nell’ottobre di due anni fa. Un mix esplosivo. Un passo importante potrebbero essere le elezioni per la costituzione dell’Assemblea costituente che dovrebbero avvenire nel 2014. Sempreché il governo di Zeidan riesca ad arrivarci al 2014, senza una disgregazione del paese, di fatto già in corso.
Petrolio ostaggio del caos libico
Alberto Negri (Il Sole 24 Ore)
«Qui l’unica strada per il paradiso è quella dell’aeroporto», recita con amara ironia una scritta sui bastioni della spettacolare corniche di Tripoli, facciata ingannevole di un Paese di cartapesta e petrolio. Si infrangono di fronte all’Italia sull’ex lungomare Badoglio, avvolto da un’afa opalescente, le fluttuanti e tragiche illusioni dei migranti, quelle dei libici e dell’Occidente, che dopo l’intervento militare del 2011 ha abbandonato la Libia pensando che le cose si sistemassero da sole in un Paese di sei milioni di abitanti e un Pil pro capite di 17mila dollari.
Tanto i libici sono ricchi, si metteranno d’accordo: quante volte abbiamo sentito questa frase ripetuta come un mantra dopo la caduta di Gheddafi? Ma ora che la produzione del petrolio è crollata a 90mila barili al giorno da un milione e 200mila e quella di gas del 50% forse è il caso di muoversi. La Libia è la nostra pompa di benzina: fornisce, a regime, oltre il 23% delle importazioni italiane di petrolio e il 15% di quelle del gas con la pipeline del Greenstream.
«Neppure cento Mandela bastano per salvare la nuova Libia», in mano a 200mila miliziani e 20milioni di armi, dice sconsolato il suo primo presidente Mustafa Abdel Jalil.
«L’Italia deve prendere in mano la leadership dei piani di aiuto internazionali: ci conosce bene e gode della nostra fiducia», afferma convinto Imad Al Bennani, uno dei leader del Partito della Giustizia legato ai Fratelli Musulmani, che come molti politici locali considera l’ambasciatore Giuseppe Buccino una sorta di medico-confessore che ogni giorno tasta con preoccupazione il polso di un paziente al collasso.
L’ascesa di un capobanda come Ibrahin Jathran, 33 anni, riflette l’anarchia libica. Questo giovane rivoluzionario barbuto che ora si rade e veste abiti italiani, ha trascorso sette anni nel carcere gheddafiano di Abu Selim e da tre mesi decide se aprire o chiudere i rubinetti del petrolio in Cirenaica dove è custodito il 70% delle riserve: la Libia ha così perso in poco tempo 6 miliardi di dollari di entrate.
Comanda alcune migliaia di Guardie del Petrolio, rivendica per la Cirenaica la Costituzione federale di re Idris del ’51 mentre è già stato annunciato un governo autonomo che si insedierà ad Al Baida. «La mia – sostiene Jathran – è una battaglia contro la corruzione e per distribuire equamente le ricchezze». Intanto è diventato abbastanza agiato per permettersi di rifiutare una prebenda di tre milioni dollari offerta sottobanco dal premier Ali Zidan, bersaglio il 10 ottobre scorso di un sequestro lampo dei miliziani dai contorni ancora oscuri.
Milizie all’assalto del petrolio. L’Italia teme la “fine” della Libia
Antonella Rampino – La Stampa
Da almeno quattro mesi ormai in Libia i siti di produzione gas dell’Eni sono a rischio, poiché le varie fazioni – armate – che si contendono il Paese usano gas, petrolio e anche acqua come strumenti di pressione politica. Il caso più famoso è quello del sito di Tobruk, non attivo appunto da quattro mesi ma che, riferiscono fonti diplomatiche a Tripoli, potrebbe riaprire già la prossima settimana, e il più recente è quello dell’attacco, la settimana scorsa, a una nave Eni nel porto di Mellitah, in Tripolitania. Sette settimane fa il gasdotto di Wafa ha dovuto dimezzare il gas che approda in Sicilia. Ma i mesi peggiori sono stati quelli del Ramadan, quando acqua ed elettricità venivano tagliate proprio per creare disagi alla popolazione. Il grave rischio della situazione libica, racconta un’alta fonte diplomatica che lavora sul campo, «è che ormai qualunque protesta anche improvvisata prende di mira i siti di produzione di energia». Oltre alle fazioni organizzate sul campo, che si schierano armi in pugno per posizionarsi politicamente rispetto alle elezioni per l’Assemblea costituente in agenda (in teoria) per l’inizio del 2014. L’Eni, spiega il vicepresidente Pasquale Salzano, ha ridotto da tempo la produzione «per evidenti motivi di sicurezza», e di fatto – come ha detto il presidente Paolo Scaroni presentando i risultati trimestrali un paio di giorni fa – è consapevole di quanto la Libia pesi sulla quotazione del titolo. Ma i primi a essere interessati ad evitare che la situazione precipiti sono i libici, con il ministro del Petrolio che proprio ieri ha ricevuto una delegazione Eni: con un Pil fermo a 56 miliardi, e costituito al 90 per cento proprio dai proventi dell’estrazione di petrolio e gas, i blocchi degli ultimi quattro mesi sono costati già 10 miliardi: per il 2014 c’è il rischio di non poter pagare gli stipendi ai centomila a libro paga per aver fatto la rivoluzione (anche se di fatto i miliziani erano 10mila, più 25mila nelle retrovie). Il governo italiano segue la situazione, e proprio la Libia è stata uno dei principali argomenti di cui hanno parlato Enrico Letta e Barack Obama nel chiuso dell’ultimo, recente incontro alla Casa Bianca: hanno concordato, data la delicatezza della situazione, di non dare «pubblicità» all’argomento, ma qualcosa è filtrato. L’Italia, per gli Stati Uniti, per la comunità internazionale, e per il retaggio di una storica influenza oltre che per la presenza di forti interessi nazionali, è in prima linea nella stabilizzazione della Libia. Operazione complessa e che passerà, si è deciso in quell’incontro nella Sala Ovale, per una Conferenza di pacificazione che si terrà a Roma nei primi mesi del 2014 (anche se non è chiaro se prima o dopo le elezioni per l’Assemblea in Libia). Ma Enrico Letta ha chiesto a Obama che l’Italia non sia lasciata sola nel difficile compito: quella Conferenza dovrebbe tenersi sotto l’egida della comunità internazionale, attraverso l’Onu. L’unica via possibile, tentando di portare a uno stesso tavolo, in territorio amico, tutti i rappresentanti delle varie fazioni: tuareg, berberi, islamisti, divisi (e moltiplicati) per tribù e per le tre principali regioni, Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. Uno degli ostacoli, è proprio nell’attuale premier provvisorio Ali Zidan: un governo troppo fragile per controllare il Paese, e fragile al punto che lo stesso premier è stato oggetto di un sequestro-lampo poche settimane orsono, e indebolito anche dall’esser diviso in due fazioni: i liberal-tecnocrati (come lo stesso Zidan) e gli islamisti della locale Fratellanza musulmana. Una Conferenza, quella di Roma che dovrà rovesciare i principi di quella precedente, di Parigi, che puntò tutto su «institution building» e giustizia: non ci si era accorti, evidentemente, che prima al Paese occorre un patto sociale e politico. Che fermi, anche, la possibile tripartizione del Paese, visto che la Cirenaica mira ad un’autonomia «federalista». Gli attuali attacchi ai siti energetici hanno uno scopo: le minacce di blocco del sito di Mellita sono state accompagnate da richieste di maggiore «rappresentatività» dei berberi all’Assemblea costituente, del riconoscimento del berbero come lingua ufficiale, e soprattutto del diritto di veto in quello che sarà il futuro parlamento libico.
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