Doveva essere una cerimonia funebre, un giorno di lacrime e tristezza, quella organizzata ieri nello stadio di calcio di Soweto, uno dei luoghi più simbolici dell’apartheid per quanto riguarda la lotta ma anche sul versante opposto della repressione e dei massacri. Ma il clima è stato tutt’altro che triste, e la folla accorsa da tutto il paese nonostante il giorno lavorativo per dare l’ultimo saluto a Madiba ha cantato e ballato in sua memoria, a lungo. Un giorno di festa, insomma, a parte la pioggia battente, solitamente rara in questa stagione, che in molti hanno letto come un omaggio della terra al leader appena scomparso e che ha permesso ai vari interventi delle autorità di ricordare forse la principale eredità che Mandela ha lasciato ai sudafricani: una nazione arcobaleno, mosaico di razze, culture, identità, frutto della ‘riconciliazione’ tra i bianchi e i neri, tra i fautori della segregazione razziale e i milioni di sudafricani ridotti in schiavitù fino a quando Madiba, dopo decenni di prigione e torture, non pose fine all’apartheid.
A rompere un’immagine idilliaca però ci hanno pensato gli stessi sudafricani stipati sulla gradinate dello stadio, che se hanno applaudito Barack Obama in quanto ‘africano’ che ha fatto carriera, hanno invece più volte fischiato quello che dovrebbe essere l’erede, politico e ideale, di Nelson Mandela. Il successore di Thabo Mbeki alla presidenza del paese è stato trattato ieri assai peggio di Frederik de Klerk, l’ultimo razzista a capo del paese.
Fischi così intensi e assordanti da costringere il presidente Jacob Zuma a interrompere più volte il suo discorso, tra l’altro assai sciatto e di circostanza, alla presenza di decine di capi di stato ed in mondovisione. A lui molti, moltissimi sudafricani rimproverano il tradimento dell’eredità ideale e politica di Madiba e della lotta contro la segregazione razziale. O, più semplicemente, corruzione e clientelismo. Se l’apartheid non esiste più formalmente, nei fatti le condizioni degli abitanti di pelle chiara e di quelli di pelle scura sono agli antipodi. E’ molto efficace la metafora usata dal sindacalista Zwelinzima Vavi: la struttura economica del paese sembra un Irish Coffee, con una grande base nera, con un po’ di spuma bianca in cima spruzzata di cioccolato.
A milioni vivono ancora in quelle baraccopoli che durante il regime razzista erano le basi della rivolta dell’Anc, del Cosatu e del Partito Comunista (di cui, si è scoperto proprio in questi giorni, Mandela era un importante dirigente). Nella comunità nera la disoccupazione tocca il 35% (tra i bianchi solo il 5%), moltissimi abitanti non hanno nessuna copertura sanitaria e non si possono permettere di mandare i figli a scuola, e vivono in condizioni tra le più dure di tutto il continente, mentre il loro paese vede crescere il Pil e scala posizioni tra i paesi emergenti del globo. Non tutti partecipano a questo benessere, e per strappare aumenti salariali e diritti i lavoratori sudafricani negli ultimi anni sono stati costretti a durissime lotte, costate anche decine di morti. Esattamente come ai tempi del regime razzista. Pesa come un macigno sulle attuali classi dirigenti la strage di Marikana, quando i poliziotti – neri, per lo più – hanno scaricato i loro mitra su decine di minatori in sciopero, ed altri ne sono morti nei mesi successivi sotto i colpi degli agenti o di guardie private al soldo delle multinazionali che gestiscono indisturbate la principale risorse del paese: il sottosuolo. Nessuna importante riforma è stata realizzata dal governo negli ultimi anni, né quella agraria che pure era nel programma dell’Anc fin dai tempi dell’inizio della rivolta contro i boeri, né le altre nel campo delle nazionalizzazioni o della sanità o dell’istruzione.
E nel frattempo pezzi importanti della dirigenza del partito che fu di Mandela si sono trasformati in una tronfia e ricca élite, interessata ai propri affari e al mantenimento dello status quo più che a un miglioramento delle condizioni di vita della propria gente. Questo ed altro hanno significato i fischi di ieri a Soweto.
Ma la festa non è stata rovinata più di tanto, e tutti i tg del mondo hanno potuto rilanciare, increduli ed entusiasti, la storica stretta di mano tra Barack Obama e Raul Castro, tra il capo del paese che assedia e minaccia Cuba e il presidente della piccola isola resistente. Un importante gesto di distensione tra due paesi in guerra, hanno fatto notare in molti. Un gesto di speranza. Vedremo se e quanto Obama è stato sincero e soprattutto se e quanto il suo gesto corrisponderà ad un atteggiamento del suo governo e delle classi dirigenti del suo paese.
Il Sudafrica deve molto ai cubani; migliaia di loro andarono a combattere e a morire in molti paesi dell’Africa australe e centrale per sostenere la lotta di quei popoli contro il colonialismo e l’imperialismo delle vecchie potenze conquistatrici. E per combattere le milizie mercenarie agli ordini delle oligarchie locali e dei governi di Pretoria e degli Stati Uniti, ossessionati dalla possibilità che in Africa si affermassero forze progressiste e rivoluzionarie. Sarebbe stato bello se ieri lo stadio di Soweto avesse reso omaggio a quegli anonimi soldati o medici cubani. Ci piace pensare che, tra un coro e un canto, un pensiero sia andato anche a loro.
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