Ogni gradino un volto, ogni volto un afghano diventato vittima del suo desiderio di non soggiogarsi a nessuno: all’invasore sovietico, ai signori della guerra civile, ai turbanti talebani, ai caschi dell’Isaf. Vittime di decenni di bombe che continuano a lasciare lo strascico di morte e i parenti nel lutto. Con queste persone da anni lavora la Social Association of Afghan Justice Seekers guidata da Weeda Ahmad. Dopo aver superato la diffidenza dei primi tempi nella raccolta di dati che ricostruiscono gli eventi familiari basandosi su percorsi geografico-temporali che parlano di morte, persecuzioni, scomparse, fughe oggi il Saajs riesce a portare gente in strada. Sua la manifestazione pubblica organizzata questa settimana a Kabul. Uomini e donne afghane che reclamano giustizia per i cari estinti, che chiedono d’incriminare gli assassini, d’identificarli, sebbene la domanda sia retorica perché diversi ceffi dell’arcinota categoria dei signori della guerra siedono in Parlamento. Sayyaf, Fahim, Khalili, Dostum, Khan da oltre trent’anno fanno il bello e il cattivo tempo sulla scena nazionale.
Sopravvivono a qualsivoglia Enduring Freedom, ricoprono cariche di primissimo piano col benestare dei potenti del mondo e si propongono addirittura per la presidenza della Repubblica Islamica nella campagna elettorale già partita. Contro di loro la caparbia volontà di Weeda può poco, sebbene in sei anni abbia raggiunto obiettivi parziali ma significativi. Racconta lei stessa: “Iniziammo nella capitale, allargandoci nelle province di Herat e Badakshan, quindi a Nangarhar, Parwan, Paktiya, Balkh, Bamyan. Tutte toccate da vari conflitti, tutte segnate da morti e lutti. Raccogliere le testimonianze di familiari duramente colpiti era difficilissimo. Il dolore resta a fondo nel cuore, si cerca di non parlarne per non protrarre le sofferenze. Giravamo per le case, ma la gente non si fidava. Potevamo essere fiduciari del governo o spie. Gradualmente le cose sono cambiate: la nostra insistenza, i motivi disinteressati hanno aperto spiragli così parecchie persone si sono confidate. Il successo è stato riuscire a creare una rete di famiglie che, oltre a narrarci la propria storia, ha partecipato ai corsi sui diritti. E alcuni di loro sono diventati investigatori e collaboratori della nostra associazione”. Purtroppo gli speranzosi passi compiuti con l’interessamento delle Nazioni Unite e dell’Umana, avvenuti sino al 2010, sono scemati nell’ultimo biennio.
“Negli incontri ufficiali ora riscontro freddezza condita con una dose d’ironia“ denuncia Ahamd. E’ grave per degli organismi che dovrebbero agire in totale autonomia, ma la svolta che fa da supporto alla politica internazionale statunitense morbida e addirittura acquiescente verso i signori della guerra inseriti nel panorama istituzionale e gli stessi Taliban. Con quest’ultimi si sono aperte le note trattative per inserimenti nei governi del futuro. La moneta di scambio sarà la tabula rasa sui massacri subìti dal popolo e la sempre più rara ipotesi di condurre i responsabili al cospetto di Tribunali internazionali. Il Saajs finora ci aveva creduto, sebbene dal 2002 Karzai aveva pattuito con l’Occidente la non perseguibilità delle nefandezze compiute nel Paese prima di quella data. Un risultato resta però indelebile nel lavoro fin qui svolto da Weeda e collaboratori, come il signor Esatollah abitante di Kabul vecchia che da solo ha intervistato oltre cinquecento famiglie: essere riusciti a rompere il cerchio della paura che fino a quel momento avevo bloccato anche il ricordo, rimuovendolo. La coscienza che un simile organismo d’un Afghanistan veramente democratico suscita è un’arma che questi uomini, queste donne si portano dentro. E’ preziosissima e gli servirà.
Enrico Campofreda, 14 dicembre 2013
articolo pubblicato su http://enricocampofreda.blogspot.it
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