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La borsa e la vita

 

Il comunismo è morto, il capitalismo trionfa, si sosteneva alcuni anni fa. I più intelligenti aggiungevano: il capitalismo (o se preferite, il libero mercato) è il sistema economico meno imperfetto. Oggi abbiamo la certezza che questo sistema fa schifo. Dal 2008 è avvitato in una crisi spaventosa generata da una speculazione selvaggia alla quale nessuna organizzazione internazionale o stati nazionali è riuscita a porre argini. Una crisi costata migliaia di miliardi che sembrava risolta: l’economia aveva ripreso a crescere e le previsioni erano ottimiste. Ma quello al quale stiamo assistendo smentisce ogni previsione.
Il sistema globale è nel vortice di una nuova crisi finanziaria che rischia di produrre effetti disastrosi, peggiori di quella iniziata oltre 3 anni fa alla quale sono state messe «toppe» gigantesche che hanno contribuito a destabilizzare i conti di molti stati. Il salvataggio delle grandi banche – troppo grandi per essere lasciate fallire – e il loro temporaneo passaggio alla proprietà pubblica non è servito a nulla. O meglio è servito unicamente a riarmare la speculazione a darle certezza dell’impunità e la convinzione che i profitti erano destinati a tornare privati e le perdite a essere socializzate.
Quella che abbiamo di fronte è una crisi fiscale degli stati: l’impossibilità di onorare i debiti sovrani. È una crisi che coinvolge il centro dell’impero (gli Usa), le medie potenze (Italia e Spagna) e soprattutto piccoli paesi come Irlanda, Portogallo e Grecia. E su questi paesi si accaniscono le società di rating (sostanzialmente tre colossi statunitensi) che danno – non richieste – giudizi feroci su i paesi che sono nei guai. Mentre in passato avevano fatto finta di non vedere che banche e società di grido erano sull’orlo del fallimento e ne suggerivano acquisti di azioni e prestiti di capitali. Ma sarebbe assurdo ridurre questa crisi a un fatto unicamente finanziario. Da un punto di vista ideologico la crisi nasce dall’anarchia del capitalismo e, in pratica. dall’incapacità degli stati di eliminare, o quantomeno ridurre, le sperequazioni nella distribuzione dei redditi. Che, anzi, con l’ultima crisi sono peggiorate. Di più: stiamo assistendo a una crescita sempre più condizionata dalle lobby delle imprese produttrici di armi che sottraggono risorse, pubbliche, a una crescita diversa. Quello che è peggio che tutte le soluzioni per uscire dalla crisi puntano non su una distribuzione dei redditi, ma su un peggioramento delle condizioni del lavoro e di vita di chi è già strangolato. Degli indici di borsa ci interessa poco, ma le condizioni di vita, degli italiani come dei greci, non possono essere decise dagli apologeti del capitalismo
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Francesco Piccioni
MERCATI Calo consistente in tutto il mondo, giù azioni e titoli di stato. E Deutsche Bank è già fuggita dall’Italia
Una giornata di un anno da cani

 

Non va. Lo scontro politico tra democratici e repubblicani Usa su come innalzare il tetto del debito pubblico ha guadagnato di prepotenza il centro della scena, ma impedisce di vedere che il vero problema è una probabile ricaduta nella recessione globale. Il Beige Book reso noto ieri sera dalla Fed, nonostante il linguaggio cauto che la caratterizza, non lascia incertezze: «l’economia è rallentata in 8 dei 12 distretti» in cui è divisa la sua competenza.
Tutti si affannano a seguire le parole dei duellanti o gli indici azionari (anche ieri andati malissimo, specie in Italia), lo spread tra i titoli sicuri e quelli considerati rischiosi (i Btp italiani sono tornati sopra i 300 punti rispetto al Bund tedesco). Ma intanto l’economia Usa si sta fermando, con ovvie ripercussioni globali, visto che rappresenta il 25% del Pil mondiale. La conferma è arriva, imprevista, proprio ieri. Gli ordini di beni durevoli, nel mese di giugno, sono calati del 2,1%, mentre gli analisti puntavano su una crescita dello 0,3; modesta, ma crescita.
La rischiosa telenovela del debito ieri è passata anche al vaglio del Cbo (Congressional Budget Office, organismo indipendente incaricato di fornire analisi economiche ai parlamentari. Il piano del democratico Harry Reid, che doveva tagliare 2.700 miliardi di dollari di spesa, è risultato adeguato a segarne solo 2.200. Quello del repubblicano Boehmer – «tarato» per 1.200 – ne copriva solo 850 milioni. Bocciati entrambi. Ma resta la divisione principale: sui tempi, l’Old Grand Party vorrebbe un piano in due tempi, leggerissimo ora e durissimo l’anno prossimo (in piena campagna elettorale per le presidenziali), i democratici vorrebbero cavarsi subito il dente. Sul modo di realizzare i risparmi, invece, i primi vogliono solo tagli alla spesa, mentre Obama ci vedrebbe bene anche un piccolo contributo dalle tasse dei più ricchi. Anatema! Ma intanto 15 repubblicani hanno deciso di votare contro il «proprio» piano, di Boehner.
Nel frattempo, gli analisti si esercitano con le ipotesi. Il rating sul debito pubblico Usa – il primo della storia – si tradurrebbe in «miliardi di dollari in più per il governo per gli interessi sul debito, miliardi di dollari in più per consumatori, aziende, stati e comuni per ottenere credito. E un’erosione della fiducia di consumatori e aziende che rallenterebbe ulteriormente economia e creazione di posti di lavoro». L’impensabile default (fallimento), invece, avrebbe un impatto così «catastrofico» da far prevedere un accordo all’ultimo secondo utile per evitarlo (a questo punto nella notte di sabato, a mercati chiusi in tutto il mondo, per dar loro tempo di «metabolizzare» il compromesso, qualunque esso sia).
Sarà, ma intanto le grandi aziende Usa si vanno preparando allo scenario peggiore: «la nostra maggiore protezione contro questo rischio è avere molta liquidità». Ovvero rinviare investimenti ed assunzioni. Un effetto «recessivo», quindi, è già in atto.
Il Wall Street Journal (galassia Murdoch, ergo «repubblicano») sostiene invece da un paio di giorni un’analisi di Barclays secondo cui, in fondo, il termine del 2 agosto «non sarebbe tassativo», perché il tesoro Usa disporrebbe di altre entrate sufficienti a farlo slittare… di una settimana. Dal ministero di Tim Geithner la risposta è stata secca: «la scadenza è fissa». In questo clima Wall Street ha continua a nutrire una diffidente fiducia in un accordo sul debito, perdendo però tra l’1% (Dow Jones) e il 2 (Nasdaq).
Per l’Italia (-2,86%) e l’Europa è andata peggio. Tutto il continente sembra percorso da giganteschi Tafazzi. Ieri il Financial Times ha spulciato l’esposizione di Deutsche Bank rispetto al debito pubblico italiano, e ha scoperto che in soli sei mesi la banca tedesca ha venduto l’88% dei titoli tricolori che aveva in cassaforte (oltre 8 miliardi). Insomma, ha contribuito non poco a svalutarele obbligazioni italiane, gonfiando così il famoso spread tra Btp decennali e corrispondente Bund germanico. Quando si nominano «i mercati» bisognerebbe ricordarsi che è questo tipo di soggetti che «fa» il mercato, decidendo chi mandare all’inferno e chi salvare (per ora…).
Un effetto indiretto si è avuto anche sull’asta dei Btp decennali che si è svolta ieri. La domanda è stata alta (il doppio rispetto all’offerta), ma l’interesse garantito come «rendimento» è salito sopra il 4% annuo. E anche questo peserà sui conti statali, mica solo la spesa sociale…
Sotto la «crisi del debito pubblico», quindi, si va combattendo anche una silenziosa battaglia per riscrivere le gerarchie interne alla zona euro. E non si tratta solo di una malevola illazione «da comunisti». Ieri il ministro delle finanze tedesco ha spiegato molto chiaramente che se «uno stato che ha problemi viene aiutato, a sua volta deve cedere una parte della propria sovranità all’Ue». Anche «accettando dure sanzioni, se non riescono a risanare le proprie finanze». Perché «l’integrazione deve procedere» e comunque una soluzione punitiva del genere è «certamente meglio che espellere dall’Eurozona i paesi che hanno un indebitamento elevato».
Qualsiasi integrazione sovranazionale, in effetti, si realizza «cedendo sovranità». I problemi nascono quando – in Europa è prassi – questa «cessione» si realizza in modo extraistituzionale e fortemente asimmetrico. Ce la vedete la Germania (o la Francia) a «cedere» qualcosa? Non va.
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Roberto Tesi
Default /NUOVO DECLASSAMENTO PER LA GRECIA
Standard & Poor si accanisce: Atene sul baratro del crack. Incertezza sul «piano Marshall»

 

Il mancato accordo negli Usa sul tetto del debito ha fatto un po’ passare nel dimenticatoio la crisi greca che seguita, tuttavia, a condizionare gli umori dei mercati che, giovedì della scorsa settimana, si erano eccitati all’annuncio di un nuovo piano di salvataggio di Atene che, secondo molti analisti, appare però insufficiente a tirare definitivamente fuori dai guai la Grecia. Non a a caso ieri Standard & Poor ha ridotto nuovamente il rating della Grecia portandolo da «CCC» (che significa «situazione venerabile») a «CC» che vuol dire debito «molto vulnerabile e altamente speculativo».
La decisione, ha spiegato l’agenzia di rating, è stata presa dopo l’annuncio del coinvolgimento dei privati nello scambio dei titoli di stato greci. Secondo S&P il coinvolgimento dei privati nel piano di salvataggio è una ristrutturazione mascherata che comporterà perdite elevate (tra il 70 e il 50 per cento) per chi aderirà all’iniziativa. S&P tace, però, sul fatto che senza riscadenzamento del debito i privati rischiano di non ricevere più un euro. La decisione di S&P è arrivata dopo una dichiarazione preoccupante da parte di David Beers, responsabile dei rating sovrani dell’agenzia statunitense, secondo il quale a breve sarebbe stato possibile un nuovo taglio del rating, già sotto outlook negativo.
Pessimista sulla Grecia (e non solo) è anche Nouriel Roubini (uno dei pochissimi economisti a aver previsto la crisi globale di 3 anni fa) secondo il quale il nuovo pacchetto di salvataggio a favore della Grecia non metterà fine alla crisi del debito della zona euro. E ha sottolineato che anche Irlanda e Portogallo «sono insolventi». In un’intervista al settimanale tedesco Die Zeit, Roubini ha spiegato che «in pochi anni l’attuale piano di aiuti per il Portogallo fallirà. La stessa cosa avverrà per l’Irlanda» e «le probabilità che la Grecia o il Portogallo lascino la zona euro si attestano al 30%».
A generare incertezza sul piano Marshall per la Grecia, anche se le misure prese dal governo ellenico sono molto radicali, è il problema dei tempi. «Il piano va nella giusta direzione – ha dichiarato Angelo Drusiani, gestore obbligazionario di Banca Albertini Syz – ma c’è un problema: i mercati temono che ci possano essere intoppi nell’approvazione da parte dei singoli paesi». La conferma è arrivata da una affermazione di François Baroin , ministro delle finanze francese, secondo il quale il voto del parlamento sul piano salva Grecia non avverrà prima di ottobre. Insomma, come accaduto meno di due anni fa – quella volta soprattutto per colpa della Merkel – la lentezza con la quale vengono approvati i piani di salvataggio li rende più costosi e meno efficaci. Intanto la Grecia ha nominato Bnp Paribas, Deutsche bank e l’inglese Hsbc come advisor per la ristrutturazione dei titoli di Stato detenuti da investitori privati a cui verrà allungata la scadenza nell’ambito del nuovo piano di salvataggio concordato con l’Unione europea. Il ministero delle Finanze greco ha anche fatto sapere che Cleary, Gottlieb, Steen & Hamilton Llp sarà l’advisor legale, mentre Lazard Freres sarà quello finanziario.
Una soluzione «particolare» per aiutare la ripresa dell’economia ellenica è stata messa a punto dalla banca svizzera Ubs: «la Grecia può svalutare restando nell’euro». Può sembrare un paradosso, ma non lo è. Il punto di partenza è che le svalutazioni servono a rendere più care le importazioni e più competitivo l’export. Ma come si fa con l’euro che è moneta comune? Soluzione Ubs: la Grecia potrebbe utilizzare una «quasi svalutazione» che gli economisti chiamano «Iva sociale». Sarebbe sufficiente, spiegano i banchieri svizzeri, che la Grecia riducesse fortemente gli oneri sociali sul lavoro e questo renderebbe meno care e più competitive le esportazioni. Per finanziare i costi di questa riduzione si potrebbe ricorrere a un forte aumento delle aliquote Iva che avrebbero il vantaggio di penalizzare le importazioni.
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Mario Pianta
IL PENDOLO SPECULATIVO

 

Immaginate una pallina che rimbalza: cade rapidamente, rimbalza a due terzi del punto di partenza, poi perde forza e torna a cadere. Le Borse internazionali sembrano arrivate a questo punto, hanno smesso di recuperare sulle irraggiungibili quotazioni del 2007, rallentano e iniziano a scendere. Qualcuna prima delle altre: la Borsa di Milano ha perso ieri quasi il 3%, ma tutte le Borse europee sono in calo. Qualche settore cade più degli altri: è la finanza a scivolare. In Italia ieri sono crollate Unicredit, Intesa, Mediobanca e Generali. In Europa già martedì le azioni della tedesca Deutsche Bank e della svizzera Ubs – due tra le più grandi e “cattive” – avevano perso quota dopo l’annuncio di profitti ridotti. Sono gli affari della speculazione che sono diventati più difficili: nel secondo trimestre l’Ubs ha avuto 1,1 miliardi di euro di profitti, l’anno scorso erano stati il doppio e a crollare sono stati i profitti dell’ investment banking: 1,5 miliardi di euro l’anno scorso, 440 milioni quest’anno. Il paradosso è che, anche nel mezzo della crisi, le banche puntano a rendimenti stratosferici: l’obiettivo dell’Ubs per il 2014 sono 17 miliardi di euro di profitti, mentre il fondo speculativo di George Soros ha guadagnato per 40 anni rendimenti in media del 20 per cento l’anno. Sono finiti qui i soldi sottratti all’economia reale, ai salari, alla spesa pubblica.
Dopo il collasso del 2008, la finanza – salvata dai governi – da un anno a questa parte ha attaccato il debito degli stati: Grecia, Irlanda, Portogallo, Italia; ora si prepara nientemeno che l’attacco agli Stati Uniti. Ma trasformare per incanto i Bot in carta straccia – come fanno le agenzie di rating – ha lo spiacevole effetto collaterale di trascinare in basso le quotazioni delle banche che li hanno in bilancio. Costringere gli stati a tagliare la spesa pubblica ha lo stesso effetto sulle azioni delle imprese che dipendono dalle commesse pubbliche per i loro profitti. Così il pendolo della speculazione torna a colpire le azioni di banche e imprese private, le Borse crollano, la finanza divora se stessa.
Senza una politica che riprenda il controllo sulla finanza, il pendolo della speculazione continuerà a muoversi tra Borse private e debito pubblico – calpestando nel suo passaggio, monete, materie prime e prodotti agricoli. La pallina delle Borse potrebbe accelerare la sua caduta, trascinando di nuovo in basso l’economia del vecchio occidente.

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Vincenzo Comito

L’Europa, la Grecia e la “rotta” dell’euro

“…(dopo l’accordo di Bruxelles) quando gli europei ritorneranno dalle vacanze troveranno ancora l’euro e troveranno ancora la crisi…”

W. Munchau, www.ft.com 24 luglio 2011

“…nessuno sta prendendo la crisi abbastanza sul serio…”

P. Jenkins, www.ft.com 25 luglio 2011

È stato già sottolineato da qualche commentatore come la crisi attuale dell’Europa sia nella sostanza di tipo politico, mentre si manifesta apparentemente soprattutto come crisi finanziaria. Essa nasce a suo tempo dall’abbandono del loro campo proprio da parte dei politici del continente – di destra e di sinistra –, a favore delle volontà dei mercati, delle banche, delle agenzie di rating. Si sviluppa poi come una lotta da una parte tra i mercati finanziari (che vogliono semplicemente ormai fare crollare la moneta unica) e i deboli stati europei, dall’altra tra i paesi del Sud e quelli del Nord Europa. Prosegue infine con l’incapacità e la scarsa voglia della classe politica attuale di portare avanti un progetto di sviluppo complessivo e solidale del continente; tale indecisione contribuisce poi ad alimentare la crisi stessa, favorendo la speculazione. Intanto chi può, come la Germania, – che dovrebbe guidare il processo di rinnovamento del continente –, cerca invece di portare avanti una strategia alternativa, in direzione dello sviluppo dei legami con i paesi emergenti e in particolare con la Cina e la Russia.

Per altro verso, come anche è stato già scritto, questa crisi non potrà che finire, prima o poi, o con l’uscita dall’euro dei paesi del Sud Europa, o con l’avvio deciso dell’Europa verso una unificazione economica e politica sostanziale. Va ancora sottolineato, tra l’altro, come mi sembra fare Rossana Rossanda, che un’unione monetaria alla lunga non regge senza un’unione politica. Sino a che l’economia occidentale tirava, drogata peraltro dalla speculazione finanziaria, nessuno in Europa si è concretamente accorto del problema, ma ora quell’errore appare tutto intero.

Ma la seconda alternativa sopra delineata appare, ahimè, la meno probabile, per le fortissime resistenze politiche che essa incontra sul suo cammino, dovendosi in particolare scontrare con l’ostilità di gran parte dell’opinione pubblica di molti dei paesi interessati – risultato questo a favore del quale si sono adoperati con fervore negli anni anche quei politici che ora dovrebbero spingere per l’unità, nonché i burocrati di Bruxelles. Oggi – in assenza di future novità sostanziali – appare dunque più probabile che la zona euro vada in pezzi, anche se non sappiamo quando e come.

Il compromesso che è stato appena varato a Bruxelles contiene indubbiamente qualche elemento positivo, almeno nel senso che forse concede un po’ di respiro – quanto lungo? Anni, mesi o giorni? – a un continente in affanno. Ma esso appare assolutamente inadeguato rispetto alle scelte sulle questioni di fondo. Tra l’altro, il documento pretende di risolvere la crisi greca ma aspettiamoci, dopo i primi due, anche un terzo e forse un quarto pacchetto per salvare il paese ellenico. Con l’accordo, il rapporto debito/pil scenderà infatti per il paese dal 170% al 130%, che appare certamente ancora troppo elevato. La crisi, peraltro, non è ormai tanto quella della Grecia, o anche del Portogallo e dell’Irlanda, ma essa ha al centro l’Italia e la Spagna, paesi di ben altre dimensioni. Così, gli investitori esteri posseggono, grosso modo, solo per quanto riguarda il nostro paese, titoli pubblici per circa 800 miliardi di euro, di cui quasi i tre quarti sono nelle mani delle banche francesi e tedesche. Altro che esposizione verso la Grecia! In questo senso, la dotazione del fondo salva- stati (Efsf) appare nettamente inadeguata al compito.

Nel cercare di approfondire comunque alcune delle questioni legate alle alternative sopra delineate, vorrei partire da un’imprecisione contenuta nell’intervento di Rossanda. Non è del tutto vero, come invece afferma l’autrice, che quattro paesi dell’Unione, Grecia, Portogallo, Spagna, Italia, sono indebitati sino agli occhi. In realtà, alcuni di quelli coinvolti nella crisi, la Spagna, ma anche l’Irlanda e in parte almeno il Portogallo – che ancora nel 2008 aveva un rapporto debiti/pil del 71%, poco più delle Germania –, non sono in difficoltà tanto per un alto livello di indebitamento pregresso, ma per altre ragioni, legate ad esempio alla crisi delle banche e/o del settore immobiliare.

Il fatto che i mali di cui soffrono alcuni dei paesi in difficoltà non siano tanto legati all’enormità del loro debito pubblico, di fronte invece alle autorità di Bruxelles che vogliono imporre a tutti i malati la stessa ricetta di tagli indiscriminati, ci porta a considerare che, almeno in parte, si sta combattendo una battaglia sbagliata e che l’obiettivo di Bruxelles, in piena sintonia con i mercati finanziari e le agenzie di rating, sia forse, in realtà, quello di imporre a tutti i paesi un ridimensionamento dell’intervento dei poteri pubblici nell’economia; il che ci ricorda, per altro verso, che questa crisi, cominciata con le difficoltà delle banche, va avanti ora invece con il taglio dei salari, delle pensioni e dei servizi sociali.

Per altro verso, le autorità di Bruxelles hanno trattato sino a oggi il caso greco come un problema di liquidità, di mancanza cioè temporanea di risorse (con l’ultimo accordo sembrano peraltro cambiare, almeno in parte, registro), quando si tratta invece di una crisi di solvibilità, di difficoltà strutturali legate al fatto che il paese non riuscirà mai a ripagare il suo enorme debito ed è destinata quindi all’insolvenza.

Le cause di tali problemi strutturali, comuni peraltro anche al nostro paese, sono certo legate da una parte alla dissennata politica di spesa pubblica perseguita in passato dalla Grecia come dall’Italia, ma anche e soprattutto, dall’altra, al fatto che l’economia di tali paesi non cresce più da tempo; in particolare, essi, insieme a Portogallo, Spagna, Francia, non sopportano un cambio dell’euro a 1,4 e oltre con il dollaro. Naturalmente pesa poi fortemente, in Europa come negli Stati uniti, in direzione di un alto livello di debito pubblico, lo sconquasso portato dalla crisi, sia in termini di maggiori uscite per sostenere l’economia che di minori entrate fiscali. Ma, a proposito delle domande poste sul tema da Rossanda, teniamo conto che complessivamente il rapporto tra il debito pubblico e il pil è in Europa, almeno complessivamente, molto inferiore a quello degli Stati uniti, paese per il quale giocano anche le altissime spese militari e la bassissima imposizione fiscale, in particolare a favore dei più ricchi.

Comunque, alla fine, i debiti si restituiscono – o non si restituiscono –, con l’inflazione, con il fallimento, con la vendita dei beni al sole – a quando la cessione del Colosseo a Mc Donald? – o, cosa che appare più sensata, con un adeguato livello di sviluppo dell’economia.

La mancata crescita dei paesi del Sud Europa è legata poi a molti fattori, non ultimo quello relativo al fatto che dal momento dell’ingresso nell’euro tali paesi non sono più stati in grado di svalutare la loro moneta per far fronte alla loro scarsa competitività. Dopo il varo dell’unione monetaria, nata peraltro, come ci ricorda Mario Pianta, del tutto subalterna alla finanza, si è dovuta registrare, accanto a un’armonizzazione delle politiche monetarie, una forte differenziazione invece nelle politiche economiche e di bilancio tra i suoi membri. Non è avvenuto così il miracolo della convergenza che molti speravano e ci sono ormai chiaramente e nettamente due Europe: quella del Nord, che ha puntato su di un modello di sviluppo centrato sulle esportazioni – il 50% circa di quelle tedesche si dirigono verso l’Europa ed è un’incognita che fine faranno tali esportazioni se l’Europa crolla – e quella del Sud, fondata maggiormente sul consumo interno.

Cosa fare allora di fronte a un simile quadro?

Intanto, combattere la speculazione sui titoli europei appare “tecnicamente” una cosa relativamente semplice. Dal momento che con l’accordo di Bruxelles il potere di acquistare titoli pubblici sul mercato è stato nella sostanza trasferito dalla Bce al fondo salva stati, “basterebbe” dotare tale fondo di risorse adeguate alla bisogna. Attualmente a esso sono stati attribuiti 450 miliardi di euro, che bastano però a malapena a difendere Grecia, Portogallo e Irlanda, non certo l’Italia e la Spagna. Allora bisognerebbe portare la dotazione, come ha calcolato qualcuno, intorno ai 2.000 miliardi di euro e la speculazione si ritirerebbe in buon ordine per qualche anno. Naturalmente qui la difficoltà è di ordine politico: si tratterebbe di convincere i governi del Nord Europa (cioè quelli dei paesi più forti) e il loro elettorato.

Ma a questo punto resterebbe ancora il lavoro più impegnativo, quello di ridurre il peso dell’indebitamento, di aumentare i tassi di crescita dell’economia dei paesi del Sud, di governare infine il sistema finanziario.

Al riparo dalla speculazione, si potrebbe organizzare la necessaria “ristrutturazione” del debito dei paesi deboli facendo contribuire finalmente sul serio anche le banche alla cosa, dopo che esse hanno prestato irresponsabilmente somme astronomiche alla Grecia. Basta finalmente con il “socialismo delle banche”, con la consueta privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite. Tra l’altro, i grandi istituti andrebbero adeguatamente capitalizzati. Ma la ristrutturazione risolverebbe il problema solo temporaneamente, se non si attivassero anche delle azioni per arrivare a una convergenza competitiva delle varie economie. Per altro verso, la stessa manovra di ristrutturazione potrebbe essere tanto meno pesante e impegnativa, quanto più avanzasse il progetto di unione economica e politica del continente, con un piano “Marshall” di rilevanti proporzioni – finanziato magari con i tanto discussi eurobond, che a questo punto non servirebbero tanto per ristrutturare il debito, ma per fini di sviluppo –, finalizzato a rendere l’economia dei paesi del Sud più competitiva. Anche in questo caso far digerire la cosa ai paesi del nord appare comunque un esercizio difficile e di lunga lena. Ma bisognerebbe comunque provare.

Sul fronte del sistema finanziario ricordiamo intanto, con Mario Pianta, l’esigenza di ridimensionare e controllare la finanza, anche per restituire un po’ di potere agli stati e alla politica. Vanno poi sottolineate le proposte di lotta contro i paradisi fiscali, per la tassazione delle transazioni finanziarie, il controllo stretto del sistema bancario ombra, e in particolare degli hedge fund, maestri della speculazione, nonché per i prodotti derivati – tra i quali i famigerati cds –, la proibizione delle vendite allo scoperto sui mercati di borsa, la separazione tra attività di banca ordinaria e di banca di investimento, con la correlata attività di speculazione in proprio, del controllo specifico delle banche più grandi, il governo – infine – delle agenzie di rating.

Per quanto riguarda tali agenzie, le proposte in campo sono diverse e vanno dall’abolizione del valore legale della notazione – è assurdo, ad esempio, che la Bce deleghi alle agenzie la decisione di quali titoli si possono accettare e quali no come garanzia dei prestiti –, alla creazione di un’agenzia di rating europea, alla proibizione della notazione per i paesi che fanno oggetto di un piano di sostegno.

Resta, alla fine di ogni ragionamento, quella che – più che un’ opinione – è una condizione: siamo nelle mani della Germania, con il corollario che l’opinione pubblica di quello e degli altri paesi del Nord non vedono di buon occhio un’Europa fatta, a loro parere, principalmente di “trasferimenti”. Questo non ci ricorda qualcosa?

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