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Quasi venti anni dopo, il 6 febbraio 2001, Ariel Sharon, leader del Likud, vinse la battaglia decisiva contro Ehud Barak nell’elezione diretta a primo ministro avviando un nuovo capitolo nella storia del conflitto tra palestinesi e israeliani. Prima della campagna elettorale Ariel Sharon, contribuì scatenare la rivolta palestinese – la seconda Intifadah – con la sua provocatoria visita a Haram al-Sharif (Tempio della Montagna) sulla spianata delle Moschee. Nel primo anno del suo mandato Sharon non è riuscito a raggiungere né la pace né la sicurezza, ma solo una costante escalation della violenza. Nel suo secondo anno si è rivelato ancora una volta come l’uomo che concepisce la forza militare come unico strumento politico e il campione delle soluzioni violente. Nelle parole di Sharon i palestinesi: “Devono essere battuti. Dobbiamo infliggere loro un alto numero di vittime e allora sapranno che non possono continuare a usare il terrore e ottenere vantaggi politici”. Il più vasto obiettivo politico di Sharon era quello di spazzare via i resti degli accordi di Oslo, completare la riconquista dei Territori, rovesciare l’autorità palestinese, indebolire e umiliare la leadership palestinese e rimpiazzare Yasser Arafat con un leader più accondiscendente.
Quattro anni dopo, ormai eliminato Arafat, Sharon provò a presentarsi come l’uomo della pace giocando nuovamente la carta della “generosa offerta” ai palestinesi.
Gli osservatori internazionali più esperti sanno bene che “il diavolo si nasconde sempre nei dettagli”. Il discorso pronunciato dal premier israeliano Sharon all’assemblea generale dell’ONU del settembre 2005 ne è la conferma. Impropriamente impazzarono i commenti positivi ad alcuni passi del suo discorso, in modo particolare quando si sarebbe riferito al diritto all’esistenza di uno Stato palestinese. I commenti della stampa israeliana sono stati definiti “entusiasti” (ad eccezione di quella vicina alla destra del Likud), anche la stampa italiana ed europea ha scelto la stessa valutazione. Eppure proprio tra le righe dei resoconti dei corrispondenti delle varie testate, si nascondeva ancora una volta il diavolo.
Ariel Sharon all’ONU era intervenuto nella propria lingua madre – l’ebraico – il compito dei traduttori si così rivelato decisivo per tradurre e spiegare al resto del mondo le parole di Sharon. Molti corrispondenti hanno riportato le sue parole come “diritto ad uno Stato Palestinese” (Corriere,
I più esperti sanno che già le parole di Lord Balfour all’inizio del XX secolo (“il diritto ad un focolare ebraico in Palestina”), diedero sponda a fraintendimenti che hanno spianato la strada ad un conflitto sanguinoso. Chi ha esperienza di Medio Oriente sa bene che una parte del mondo e delle organizzazioni arabe o islamiche non riconoscendo l’esistenza dello Stato di Israele non lo chiamano come tale ma lo definiscono “entità sionista”. Contro questa negazione la autorità israeliane protestano in tutte le sedi internazionali.
Nel dicembre dello stesso anno – il 2005 – Sharon venne colpito da un ictus, a gennaio entrava in un coma dal quale non si è più ripreso fino alla morte sopravvenuta oggi.
Non solo i palestinesi ma anche il mondo non sentirà affatto la mancanza di Ariel Sharon.
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