In questi giorni la Bosnia, uno dei paesi più poveri di tutto il continente europeo con la disoccupazione reale tra il 40 e il 50%, un abitante su 5 al di sotto della soglia di povertà e i salari medi che si aggirano sui 300/400 euro, ha colto tutti di sorpresa.
La scorsa settimana le proteste popolari contro i governi locali e quello federale, originate dalla rabbia di migliaia di operai lasciati senza lavoro, senza sussidio e senza pensione da un truffaldino processo di privatizzazione delle aziende pubbliche che le ha mandate in malora, aveva assunto una forma durissima e violenta: assalti e incendi di sedi istituzionali e governative e scontri con la polizia in decine di città di tutta la federazione.
Calate di intensità e anche in termini di partecipazione, comunque le proteste popolari contro privatizzazioni, povertà e corruzione della classe politica sono continuate anche negli ultimi giorni in diversi centri della Bosnia, in alcuni dei quali i dimostranti stanno costituendo le ‘assemblee dei cittadini’.
Ieri A Tuzla, l’ex città industriale del nord dove ha preso avvio la protesta, mentre i rappresentanti dell’assemblea stavano discutendo con il consiglio cantonale le proposte per la formazione di nuovo esecutivo di carattere ‘tecnico’ oltre 300 operai delle aziende privatizzate e poi fatte fallire da manager incompetenti e corrotti hanno manifestato davanti al Tribunale. Tra i dimostranti circolavano denunce sulle privatizzazioni criminali, sulle connivenze tra la ‘mafia dei fallimenti’ e la giustizia, e anche sul ruolo avuto dai politici nelle privatizzazioni illegali. In seguito, i manifestanti sono andati a protestare davanti alla sede dei sindacati per criticarne l’assenza dalle lotte e la complicità con governi e classe imprenditoriale.
Manifestazioni ieri si sono svolte anche in altre località della Federazione Bh (entità a maggioranza croato musulmana di Bosnia) come Zivinice, Kalesija, Kakanj, Cazin, mentre a Bihac le proteste si sono placate da quando, tre giorni fa, si è dimesso il premier del cantone Hamdija Lipovaca.
Alcune centinaia di persone hanno manifestato invece a Zenica, invitando i cittadini a partecipare all’assemblea convocata per oggi mentre assemblee di cittadini sono state convocate per il pomeriggio di ieri a Bugojno, Mostar e a Sarajevo, dove circa duecento dimostranti hanno manifestato sotto la pioggia e su uno degli striscioni si leggeva “Non c’è la neve, avete rubato pure quella”.
Recita il manifesto reso noto dall’assemblea dei cittadini di Brcko martedì sera: “Dietro di noi non c’è nessun partito od organizzazione, ma le umiliazioni di anni, fame, impotenza e disperazione”.
Tra lunedì e martedì a migliaia i manifestanti sono scesi in piazza in parecchie città della Bosnia Erzegovina per chiedere la liberazione degli arrestati negli scontri della scorsa settimana, la dimissione dei vari governi e la cancellazione di tutte le privatizzazioni che in questi anni hanno portato allo smantellamento del patrimonio industriale del paese governato da un fiduciario della Nato. “Avete rubato per vent’anni, ora basta” e “Tribunali e polizia proteggono i banditi al potere”, erano gli slogan più ricorrenti su cartelli e striscioni esposti a Sarajevo davanti al palazzo del governo della Federazione, in parte incendiato durante una delle manifestazioni del finesettimana. Nella capitale federale ai manifestanti si sono uniti anche molti lavoratori della locale azienda dei trasporti pubblici, anch’essa al collasso.
Interessante segnalare che una cinquantina di persone hanno manifestato nel centro di Belgrado, capitale della Serbia, per esprimere solidarietà e sostegno alla protesta popolare in corso nella confinante Bosnia. ‘Coraggio Bosnia, siamo con te’, ‘Oggi Tuzla, domani Belgrado’, ‘Stop alla repressione’, ‘Il capitalismo é in crisi – la repressione poliziesca non lo può salvare’ erano alcuni degli slogan gridati o scritti sui cartelli. In una dichiarazione letta ai dimostranti da uno degli organizzatori del presidio è stato sottolineato come i problemi della Bosnia siano comuni a tutti i Paesi dei Balcani, e come sia per questo necessaria una ‘alleanza di tutti contro il nemico comune’. ‘La lotta comune del popolo é l’incubo dei governi’, ‘Abbasso l’Unione europea e i loro regimi di tycoon. Abbasso il capitalismo e la privatizzazione. Viva la lotta dei popoli dei Balcani’ ha concluso l’appello letto in piazza mentre a poca distanza manifestavano gruppi di ultranazionalisti serbi.
Di seguito riproduciamo un interessante commento di Tommaso di Francesco sulla situazione in Bosnia e sulle reazioni da parte dell’Unione Europea.
Bentornata a Sarajevo, lotta di classe
L’analisi. In Bosnia Erzegovina, nei luoghi della sanguinosa guerra interetnica degli anni Novanta, torna la protesta dei lavoratori. E l’Occidente minaccia «l’invio di truppe»
Da una settimana ormai dilaga la protesta dei lavoratori in Bosnia Erzegovina, significativamente nelle stesse località, a partire da Sarajevo, che poco più di 20 anni fa hanno visto lo scatenarsi della guerra interetnica che dissolse nel sangue la Federazione jugoslava. Ce n’è abbastanza ormai per trarne alcune considerazioni che non riguardano solo il sud-est europeo che, chissà perché, ci ostiniamo a considerare lontano. Perché quel che accade rimette probabilmente in discussione un paradigma storico e politico.
Tutto iniziò con la crisi economica
Con la protesta sociale diffusa in tutti i Balcani — solo a gennaio è ripresa l’iniziativa dei lavoratori serbi contro una draconiana legge sul lavoro voluta dal governo di Belgrado, per non parlare di altre proteste in Croazia, Montenegro, Macedonia e nello stesso ancora conteso Kosovo — assistiamo ad una sorta di «ritorno al futuro». La crisi dell’ex Jugoslavia fu infatti prima di tutto crisi economica e sociale e poi arrivò il cancro dei nazionalismi separatisti, anche grazie alla debolezza della Costituzione di Tito e Kardelj del 1974 che autorizzava il diritto di veto delle rappresentanze istituzionali delle varie Repubbliche anche equamente ripartite. Quando la crisi economica irruppe, a metà degli anni 80, cominciò a sgretolarsi il sistema della solidarietà tra le varie Repubbliche (e regioni autonome) che componevano il delicato mosaico jugoslavo. Con le regioni più «ricche» pronte a difendere i propri cittadini, ma invise a soccorrere le aree più arretrate, regioni che spesso corrispondevano quasi strutturalmente ad altrettanti nodi istituzionali e politici legati ai diritti delle minoranze che lì vivevano. Come fu il caso del Kosovo. Come si può capire, fu quasi un anticipo del conflitto inter-europeo che contrappone oggi i vari paesi dell’Unione in equilibrio paritetico di poteri solo nella rappresentanza di turno nella presidenza Ue. Proprio come fu per la Jugoslavia.
A quel conflitto sociale che puntava a salvaguardare la condizione dei lavoratori e il welfare garantito, minimo, infimo ma importante, invece che un’azione autonoma e indipendente dei sindacati e un ruolo decisivo dell’istituzione dell’autogestione — entrambe realtà sostanzialmente marginali, senza poteri effettivi e subalterne rispetto all’emergere dei diritti nazionali — maturò una gestione nazionalista della protesta diffusa. Fu così per il complesso agroindustriale dell’Agrokomerc in Bosnia, così per le fabbriche in Croazia, Slovena e Serbia, così per le miniere in Kosovo e per i cantieri montegrini. Alla fine più che la lotta di classe contò ancora una volta lo scontro tra interessi identitari più o meno mascherati. Esiziale fu la gestione dell’Unione europea (allora si chiamava ancora Cee) quando, piuttosto che salvaguardare l’unità della Federazione jugoslava, legittimò la guerra, intanto esplosa, con il riconoscimento di Slovenia e Croazia come nazioni sovrane dopo la loro autoproclamazione in stati autonomi sulla base etnica della «slovenicità» e della «croaticità». Preparando il baratro del conflitto in Bosnia dove ogni nazionalità, lingua e religione erano rappresentate.
Questo ruolo di Bruxelles — ma anche della Nato, siamo nel 1992 a tre anni dall’89 — mostra quale fu da quel momento in poi il ruolo dell’Unione europea. Con il miraggio dell’ingresso nell’Ue offerto a questi nuovi stati nazionali, fu di sostanziale compartecipazione alla guerra, con l’accaparramento di influenza contrapposte: la Francia diventava filo-serba, la Gran Bretagna filo-bosniaca, la Germania filo-croata e via dicendo. Il tutto con l’avvento nell’area della «diplomazia» statunitense. Alla fine decisiva, sia per la risoluzione della guerra in Bosnia con la pace di carta di Dayton a fine 1995, e in seguito con l’intervento armato aereo della Nato per la «risoluzione» dell’irrisolta crisi kosovara nel 1999.
La coazione a ripetere occidentale
Che c’entra tutto questo con la protesta sociale in corso? Varrà la pena riflettere sul fatto che l’unica risposta che è venuta in questi giorni dall’Occidente sulle agitazioni dei lavoratori e le proteste sociali in tutti i Balcani, a cominciare dalla Bosnia, sia stata ancora una volta la minaccia dell’uso della forza. L’Unione europea, pare di capire, non può permettersi di veder fallire la finta sicurezza definita nel sud-est — colonie d’oltremare? — con vere e proprie occupazioni militari, proprio ora che è alle prese con la crisi di senso e di solidarietà del suo status fondativo. E allora che fa? L’Alto rappresentante della Comunità internazionale in Bosnia Erzegovina Valentin Inzko, preso da un attacco di coazione a ripetere, minaccia: «Se la situazione dovesse peggiorare dovremmo ricorrere all’invio di truppe dell’Unione europea».
Lo «spazio jugoslavo»
Quel che è sotto gli occhi di tutti è il fatto che, proprio grazie alla protesta diffusa dei lavoratori, sta tornando lo «spazio jugoslavo». Perché se tutto è nato dalla crisi economica degli anni Ottanta, non fu certo la guerra interetnica a risolverla. Anzi, la guerra l’ha aggravata, i poveri sono diventati più poveri e ad arricchirsi sono state tutte le mafie che la guerra hanno voluto e alimentato. La massa che la guerra ha combattuto è ferita, mutilata e senza nemmeno sostegni, i salari sono di fame, la disoccupazione vale per metà della popolazione. Una situazione se possibile peggiore della Grecia. E nel centenario della Grande guerra che ebbe origine, ufficialmente, proprio a Sarajevo, mentre la città resta, come allora, sospesa tra le strategia delle grandi potenze dell’area. Ieri è «occasionalmente» arrivato in visita anche il ministro degli esteri turco Davutoglu.
L’Unione europea per legittimare l’ingresso degli stati balcanici nel suo «allargamento» insiste ad amministrarli con il Fondo monetario internazionale che ha avviato da tempo mega-privatizzazioni di tutto, servizi e complessi industriali. Che ormai falliscono, dopo avere arricchito élite e mafie locali. E si accende la rivolta sociale. Già la disinformacjia dei regimetti e i corvi ultranazionalisti arrivano per riproporre l’ennesima strumentalizzazione della protesta, pronti ad impadronirsene, a Mostar, a Banja Luka, a Sarajevo, dove emerge anche una rottura generazionale. Ci raccontano da Sarajevo che molti cittadini restano sgomenti e dolorosamente ammettono: «Il palazzo della presidenza noi l’abbiamo difeso con le armi dai cetnik, ora i nostri figli lo bruciano…che sta accadendo?». In piazza a Tuzla gli operai delle cinque fabbriche fallite dopo la privatizzazione dichiarano: «Restituite le fabbriche ai lavoratori» e il primo giorno hanno scritto sui muri della città «Morte al nazionalismo». Nema problema, è davvero una buona notizia. Bentornata lotta di classe.
Fonte: il manifesto
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