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Iraq: Usa e Iran costretti a collaborare contro gli estremisti sunniti

Continua nelle regioni centrosettentrionali dell’Iraq l’avanzata delle milizie jihadiste dell’Isis – Stato Islamico dell’Iraq e della Siria – che ha già permesso loro di occupare una vasta zona strategica perché comprende molti distretti petroliferi ed è confinante con i territori controllati in Siria dai gruppi vicini ad Al Qaeda. Nelle ultime ore gli estremisti sunniti, ai quali si stanno unendo molti volontari sunniti locali, hanno conquistato Tal Afar, altra città di importanza strategica nel nord del Paese, strappandola alle forze regolari irachene che pure erano guidate da un esperto comandante addestrato dagli statunitensi e difivendo di fatto il paese in tre parti, con quella centrale controllata proprio dall’Isis.
I miliziani sunniti – provenienti da decine di paesi del Medio Oriente ma anche da Europa, Stati Uniti e Caucaso – hanno anche attaccato le postazioni dell’esercito iracheno a Baaquba, a nord di Baghdad, e a Qaim, lungo il confine con la Siria, occupando le stazioni di polizia di queste due aree e liberando i detenuti che si trovavano al loro interno.
Nella provincia di Diyala le forze di sicurezza irachene hanno fatto sapere di aver respinto gli attacchi dell’Isil nelle zone di al-Azim, 100 chilometri a nord di Baghdad, e al-Muqdadiya, 80 km a nordest della capitale. 

Anche se al momento non è possibile una conferma indipendente, i jihadisti sunniti hanno rivendicato su Twitter di aver ucciso 1700 soldati sciiti dell’esercito di Baghdad, pubblicando alcune immagini e video di esecuzioni sommarie avvenute in particolare a Tikrit, nella provincia di Salaheddin conquistata nei giorni scorsi.
Ed è infatti soprattutto tra gli sciiti del sud dell’Iraq che il debole governo di Nouri Al Maliki sta reclutando centinaia di volontari per affiancare e sostituire i soldati che hanno abbandonato armi e divise davanti all’avanzata delle truppe dell’Isis. L’aiuto dei Peshmerga curdi, arrivato immediatamente a copertura del fronte nord e che per ora ha limitato l’avanzata dell’Isis in quella direzione, potrebbe rivelarsi un boomerang per il governo centrale iracheno che teme che le milizie del governo autonomo curdo si impossessino dell’importante centro petrolifero di Kirkuk che ora presidiano in accordo con le autorità di Baghdad.

La marcia a tappe forzate dei miliziani jihadisti verso Baghdad ha scatenato il panico in tutto il Medio Oriente. Non solo l’Iran ha dispiegato truppe in territorio iracheno a sostegno del governo Al Maliki, ma anche le autorità giordane hanno messo il proprio esercito in stato d’allerta e rafforzato le difese al confine con l’Iraq, e anche le milizie di Hezbollah in Libano – già impegnate contro l’Isis in territorio siriano – sono in stato d’allarme. D’altronde l’obiettivo dichiarato dell’Isis e incarnato dal leader Abu Bakr al Baghdadi, è quello di creare un califfato unico assoggettando non solo Siria e Iraq, ma tutta la regione del Levante includendo quindi anche Giordania, Libano e Territori palestinesi. Un progetto dietro il quale si cela – neanche tanto – l’egemonismo dell’Arabia Saudita che, non è un mistero, ha finanziato e sostenuto le milizie sunnite in collaborazione con il regime di Ankara (che però ora sembra preoccupata dall’evolvere della situazione).

Sul fronte internazionale il governo degli Stati Uniti non sembra essere intenzionato a intervenire direttamente e rapidamente per colpire le milizie jihadiste che del resto da tempo vengono sostenute, anche se a fasi alterne, da Washington in Siria e in Libano. Obama ha più volte chiarito che non intende impegnare gli Stati Uniti in una missione militare consistente in territorio iracheno, e che al massimo sta valutando di fornire maggiore sostegno al governo di Baghdad e di mettere a disposizione satelliti e droni per indebolire le milizie dell’Isis. Intanto però il Pentagono ha deciso l’invio del paese di una squadra composta di 275 soldati, a difesa dell’ambasciata di Washington a Baghdad e del suo personale. La Casa Bianca ha anche già inviato nel Golfo Persico una squadra navale al seguito della Mesa verde, con a bordo 550 marines, che si aggiunge alla portaerei George H.W. Bush che è già in zona.

Ma i due contingenti – ha chiarito Obama – non devono essere considerati lavanguardia di un nuovo intervento militare e duraturo di terra.
Washington sembra ricercare un accordo – per quanto minimalista – con lIran di Rohani per tentare di impedire che in Iraq prevalgano gli estremisti sunniti senza però operare con convinzione affinché lIsis venga spazzata via come pure sarebbe nelle possibilità di Washington. Il gioco di Obama sembra quello di un intervento soft per diminuire la forza dellIsis ma al tempo stesso mantenerla in esistenza per controbilanciare un eventuale rafforzamento dellasse sciita tra Teheran-Damasco ed Hezbollah. Stante la situazione l’Iran non può non intervenire in Iraq e se Washington non fosse in qualche modo della partita lascerebbe campo libero a Teheran e ciò indebolirebbe ulteriormente gli interessi USA in Medio Oriente.
Secondo molte fonti in queste ore a Vienna sono in corso contatti diretti tra esponenti statunitensi e iraniani al margine dei già previsti incontri internazionali sul programma nucleare di Teheran che Washington dovrà probabilmente cominciare a tollerare se vorrà laiuto iraniano nellarea. Dopo alcune dichiarazioni di apertura di Kerry nei confronti di una possibile collaborazione militare tra Washington e Teheran, in serata i portavoce di Obama e del Pentagono hanno corretto il tiro, affermando che non vi è alcun interesse ad accordi militari con lIran. Ma è evidente che la situazione richiede una cooperazione indiretta e informale.

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