Fuggono con ogni mezzo, anche a piedi sulle sassose montagne attorno a Sinjar molto a ovest di Mosul, verso il confine siriano. Sono gli yazidi, secondo un certo islam gli “adoratori del diavolo”, seguaci d’una fede che mescola credenze locali, zoroastriane, sufi e islamiche stesse, sedimentate in quattro millenni di non facile esistenza. Eppure si sono conservati attraverso articolati e intricatissimi processi storici. Ora temono le bandiere nere dell’Isil che li raggiungono nei luoghi avìti, dove negli ultimi decenni vegliavano su di loro i peshmerga, quelli che sfidano la morte. O almeno lo facevano. Perché alcuni attuali analisti, magari detrattori di questa tipologia di guerriglieri molto armati da grandi potenze (Usa, Urss e attuale Russia, Gran Bretagna) e tanto amati dalla Cia per i favori resi nelle battaglie contro Saddam e Bin Laden, sembrano diventati nostalgici dei tempi pacifici in cui si dilettavano nei lavori civili piuttosto che imbracciare e usare l’Ak-47 o l’M16. Almeno questo è apparso nei giorni scorsi, durante l’attacco jihadista alle postazioni della città di Sinjar che i peshmerga hanno abbandonato dopo una blanda resistenza.
Hanno lasciato l’impaurita popolazione senza difese, al cospetto di barbe e turbanti che la giudicano eretica matricolata. Non proprio un bell’andare. Così le carovane di donne e bambini, vecchi e adulti si susseguono da giorni fin sulle aspre alture e creano l’ennesimo esodo, per ora quantificato in 40.000 profughi che, se nulla dovesse accadere, potrebbero aumentare esponenzialmente. Verso quest’abbandono della propria gente si sono attivate altre sigle combattenti kurde irachene: HPG (People Defence Forces) e YJA (Free Women Troops), avvicinandosi al campo profughi prossimo alla città di Maxmur con l’intento di contrastare le milizie dell’Isil. Lo stesso braccio armato del Partito kurdo dei lavoratori, diviso fra i territori turchi e quelli della Rojava, è in mobilitazione per sostenere i fratelli oltreconfine minacciati dal fondamentalismo sunnita. Che la direzione politica, prima di quella militare, del clan fedelissimo al presidente Barzani non sia ben vista dai vertici del Pkk è storia antica. Il paramericanismo dei kurdi iracheni durante l’Iraqi Freedom è stato oggetto di ampio dibattito nelle varie componenti politiche di questo popolo sparso in quattro nazioni (Turchia, Iraq, Iran, Siria).
Così come il progetto confederale prospettato da Abdullah Öcalan non piace affatto al leader dei kurdi iracheni nato in Iran e assai vezzeggiato a Washington. L’incrudimento della situazione interna addirittura più complessa di quella siriana nella rimessa in discussione di status quo, frontiere, entità nazionali, direzione dello Stato che vedono guerre civili, tribali, confessionali e per bande in svolgimento e in allargamento, non sembra produrre un avvicinamento fra le diverse anime kurde. Del resto i disegni sono ben diversi. Al progressismo aconfessionale e paritario fra i generi del Pkk e dei partiti fratelli a legalità limitata (Bdp, Hdp), Masoud Barzani oppone un’autonomia che maschera un protettorato clanista su zone territoriali particolarmente ricche di risorse, come quelle energetiche, i cui proventi restano a vantaggio di quella regione chiamata Kurdistan, ma comprendente i soli kurdi iracheni. I familiari di Barzani e lui medesimo sono chiacchieratissimi per guadagni leciti e illeciti e chi ne ha scritto s’è trovato davanti a metodi putiniani, com’è accadduto nel 2010 al giornalista Osman che ora non può più scrivere. Non chiedetegli il perché: l’hanno tacitato per sempre.
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