Scontri, lacrimogeni, saccheggi e manifestazioni: ad alcuni giorni dalla morte di Michael Brown, un giovane nero disarmato ucciso a freddo da un ufficiale di polizia a Saint Louis, nello Stato del Missouri, continuano le sommosse contro il razzismo delle forze dell’ordine e delle istituzioni.
A scendere nelle strade è in particolare la comunità nera del quartiere di Ferguson, a Saint Louis, dove vive la famiglia del giovane assassinato sabato scorso, spinta alla mobilitazione non solo dalla morte di Brown ma anche da insostenibili condizioni di vita ed economiche. “Senza giustizia nessuna pace” oppure “Stop ai poliziotti assassini” continuano a gridare i giovani di Ferguson sconvolti dalla morte del diciottenne che presto avrebbe iniziato l’università e che nulla aveva a che fare con bande o criminalità. Nel quartiere, dove vivono circa 21 mila persone per due terzi afroamericane, solo 3 dei 53 agenti di polizia in servizio hanno la pelle scura; e uno solo dei sei consiglieri municipali è nero.
Secondo la versione ufficiale, la ‘tragedia’ sarebbe stata provocata dal ragazzo che si sarebbe opposto al fermo ingaggiando una lotta con l’agente di polizia al quale, immancabilmente, sarebbero partiti alcuni colpi che avrebbero ucciso il diciottenne. Tutto sarebbe iniziato, racconta il locale capo della polizia, quando l’ufficiale – la cui identità non è ancora stata resa nota – ha incontrato Brown e un altro individuo in strada; dopo un breve alterco – scattato non si sa per quale motivo – il giovane avrebbe spinto il poliziotto nella sua autopattuglia e lo avrebbe aggredito, e l’agente si sarebbe difeso impugnando la pistola e sarebbero partiti vari colpi che avrebbero raggiunto Brown. Una versione assai sconclusionata che non ha convinto la comunità nera di Ferguson. Anche perché il testimone che al momento della tragedia era con il diciottenne, Dorian Johnson, ha raccontato un’altra storia: i due ragazzi erano andati a comprare qualcosa in un negozio del quartiere e quando tornavano verso casa hanno incontrato l’agente che gli ha intimato di salire sul marciapiede e di non camminare sul ciglio della strada. I due ragazzi non hanno però dato retta all’ufficiale che a quel punto si è imbestialito ed è sceso dall’auto, impugnando la pistola. “Il poliziotto ha sparato, ci siamo spaventati e abbiamo cominciato a scappare, ma ha sparato di nuovo. Il mio amico si è fermato ed ha alzato le mani, ma l’agente si è avvicinato e gli ha sparato al petto. Non stavamo facendo male a nessuno, eravamo completamente disarmati” ha raccontato Johnson a una tv locale scatenando l’ira del quartiere. In tre giorni di scontri – con alcuni ragazzi che hanno anche saccheggiato negozi e attaccato edifici pubblici e la polizia che ha usato massicce dosi di gas lacrimogeni – sono stati ben 40 gli arresti. La famiglia della vittima ha chiesto ai manifestanti di protestare pacificamente, perché così avrebbe voluto Brown, da tutti descritto come un ragazzo tranquillo.
Immancabili le frasi vuote e retoriche del presidente Obama. “La morte di Michael Brown è scioccante, io e Michelle inviamo le nostre più profonde condoglianze alla sua famiglia e alla sua comunità in questi momenti così difficili” ha detto il primo presidente nero degli Stati Uniti che durante il suo mandato non ha mosso un dito per rimuovere le cause di un razzismo strutturale che continua a discriminare e a prendere di mira le minoranze del paese e in particolare quella afroamericana. Le statistiche parlano chiaro: i condannati a morte dalla magistratura statunitense sono soprattutto neri, mentre il 2,5% dei membri della comunità afroamericana sono attualmente in galera. Secondo il forum Southern Poverty Law Center, che monitora il razzismo negli States, i gruppi organizzati dediti alla discriminazione razziale sono diventati 1200 contro i 602 del 2010.
Negli ultimi anni sono stati molti i casi in cui giovani neri sono stati uccisi da agenti di polizia che non hanno pagato neanche con un giorno di prigione. Anche i casi più famosi hanno causato esplosioni di rabbia tra le comunità afroamericane che non hanno avuto finora alcuno sbocco, né politico né giudiziario. Nel febbraio del 2012 la morte del diciassettenne Trayvon Martin, raggiunto da una pallottola sparata da una ronda di quartiere, scatenè sommosse e scontri senza precedenti. Ma il suo assassino, il vigilante volontario George Zimmerman, fu assolto al termine di un processo farsa. All’epoca Obama disse che se avesse avuto un figlio sarebbe “stato come Trayvon” e promise cambiamenti rapidi nella legislazione del paese. Di cui, a due anni da quell’omicidio, non si è vista traccia.
Ed intanto a Ferguson le manifestazioni continuano, e la repressione si allarga. Ieri due le mobilitazioni: la prima, davanti a un distributore, dissolta a colpi di lacrimogeno dagli agenti in tenuta antisommossa. La seconda davanti al commissariato di polizia del quartiere per chiedere che l’agente omicida venga processato e punito. Ma oltre che con i residenti neri e quelli delle altre comunità che si uniscono alla protesta la polizia locale ora se la prende anche con la stampa. Ieri sera due giornalisti, uno del Washington Post e l’altro dell’Huffington Post, sono stati identificati e poi arrestati all’interno di un McDonald’s mentre si apprestavano a documentare le manifestazioni. Uno dei due reporter, Lowery, ha raccontato: “Mi hanno spinto contro il distributore dell’acqua perchè ero confuso su quale uscita mi avevano detto di usare”. I giornalisti sono stati rimessi in libertà dopo un’ora circa, senza accuse, e i poliziotti si sono rifiutati di fornire loro le proprie identità.
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