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Draghi e Juncker. Fuoco “amico” sui quartier generali

Anche la reazione non è un pranzo di gala, ma un atto di violenza. In genere più di una rivoluzione. E in una situazione di crisi “stabile” (visto che almeno una cosa non è più precaria? Malfidati…) ogni conflitto diventa velocemente per la vita e per la morte.

L’Unione Europea era nata come un “atto di pace”, ma è stata costruita come un “mercato” e con “regole di mercato”, lasciando le questioni costituzionali sullo sfondo di un avvenire da work in progress e quindi in balia delle forze reali del mercato; oltre che dei rapporti di forza tra gli Stati.

Una costruzione bislacca, un mostro che non si è mai visto nella storia (un “non Stato” che mira a diventare uno Stato a partire dall’economia e non dalla coesione della popolazione); con governanti privi di legittimazione democratica, ma con poteri cogenti sulle amministrazioni nazionali più deboli e quindi sui cittadini che non li hanno votati.

Sembrava l’uovo di Colombo – sottrarre la decisione alla volubilità della “volontà popolare” – per garantire “governabilità eterna”; o meglio una governance di stampo – e autoritarismo – aziendale.

Ma interessi dei gruppi multinazionali, dei grandi istituti finanziari e di alcuni Stati nazionali non andati ancora in dismissione (perlomeno non con la velocità di Italia, Grecia, Portogallo e Spagna) stanno mettendo a serissimo rischio la tenuta dell’insieme chiamato Unione Europea.

In soli due giorni abbiamo avuto due “botti” contemporanei che prendono di mira – e nessuno dica che avviene “per caso” – i ruoli chiave nei due pilastri della costruzione unitaria: la presidenza della Bce e quella della Commissione (il “governo europeo”).

Contro Mario Draghi, Bundesbank e la minoranza “austero-integralista” hanno fatto partire una campagna mediatica che ne mette in discussione la credibilità personale, lo “stile” decisionale e comunicativo, non tanto le scelte di politica monetaria. Ovviamente sono queste ultime il vero cuore della questione, ma se il “blocco tedesco” attaccasse da questo lato finirebbe col perdere in modo disastroso. Ben pochi governi europei (e le rispettive banche centrali nazionali) possono accettare una politica monetaria “restrittiva” in piena ondata recessiva e deflattiva (conclamata per l’Italia, di fatto per quasi tutti i paesi principali e per l’area euro nel suo insieme). Quindi si procede con una sorta di “metodo Boffo”, facendo finta che il problema sia la persona, non il programma d’azione.

Su questo fronte oggi – alla conferenza stampa della Bce, dopo la prevista riunione del board – si saprò se Draghi ha ancora con sé la maggioranza di Francoforte o se i dubbiosi, sommati ai contrari “storici”, hanno rovesciato gli equilibri. In ogni caso, sembra facile previsione che per questo mese le “decisioni operative” della Bce restino congelate, pur in presenza di un’accelerazione delle dinamiche negative in molti paesi importanti (compresa la stessa Germania). Al massimo Draghi potrà ripetere di essere «pronto a prendere ulteriori misure non convenzionali, se necessario», ma senza prenderne nessuna proprio quando sembrerebbe necessario. Il tasso di inflazione più recente registrato dall’eurozona dà infatti un +0,4% totale (effetto di correzioni statistiche, non di un cambiamento nella tendenza), e addirittura un -0,7% se “depurato” dai prezzi di energia e alimentari. Se non è deflazione questa…

Una paralisi che naturalmente sarà “scontata” dai mercati, che quando sentono puzza di indecisione affondano immediatamente il colpo speculativo.

Il secondo “botto” è invece effetto di una maxi-inchiesta, che ha visto convergere il lavoro di un’ottantina di giornalisti aderenti all’International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ), sugli accordi fiscali segreti tra una serie di multinazionali e il Lussemburgo. Scopo: evadere le tasse nei paesi dove mantengono la sede legale, dirottando centinaia di miliardi di dollari su conti lussemburghesi. Una pratica più che decennale – stando alle 28.000 pagine di documenti raccoltti nonostante la melliflua opposizione del principato – che coinvolge direttamente Jean-Claude Juncker, primo ministro del suo paese dal 1995 fino all’anno scorso. Stiamo parlando di un piccolo paradiso fiscale con appena mezzo milione di abitanti, che ha stretto negli anni 550 accordi fiscali riservati con altrettante multinazionali clienti di PricewaterhouseCoopers (Pwc), un “network globale e integrato che fornisce servizi professionali di revisione, di advisory, legali e fiscali”. Clienti dai nomi ultranoti, come Pepsi, Ikea, Amazon, FedEx, Accenture, Aig, Gazprom, Deutsche Bank, Procter & Gamble; ma anche Unicredit, Banca Sella, Intesa SanPaolo e persino Finmeccanica, controllata dallo stato italiano (che quindi frodava il fisco per conto dello Stato; vi sembra normale?). Imprese di tutti i settori, di qualsiasi paese (americani, russi, tedeschi, italiani, svedesi, francesi, ecc). Può essere credibile come “premier dell’Unione” l’uomo che, sottoscrivedo quegli accordi fiscali segreti, ha messo in più grave difficoltà i bilanci pubblici di molti dei paesi che ora dovrebbe “sanzionare”?

Impossibile che il premier di questo piccolo paradiso, con nemmeno il doppio degli abitanti di Cinecittà, “non sapesse” quel che avveniva nella sede del suo ministero delle Finanze; vista, oltretutto, la dimensione delle entrate che derivavano comunque da questi accordi.

Due “botti in contemporanea, dicevamo, ma provenienti da fronti decisamente opposti e con “bersagli” posizionati su triceee altrettanto opposte. Draghi è sotto il fuoco tedesco, Juncker è stato voluto alla presidenza della Commissione proprio da Angela Merkel. Il primo è oggetto di “indiscrezioni” provenienti dall’interno dell’istituto che presiede, il secondo è demolito da un network informativo multinazionale, ma con base negli Stati Uniti.

Non siamo complottisti, dovrebbe esser noto. Ma che Germania e Usa non siano in questo momento nel periodo migliore dei loro rapporti è cosa certa, dichiarata, palese. Per l’Unione Europea può diventare una bomba ad orologeria.

 

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