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Gli Usa rioccupano l’Iraq, ma a fin di bene…

Alla fine la mossa più volte negata – i soldati americani non torneranno mai più in Iraq aveva più volte giurato e stragiurato Barack Obama – è stata decisa durante il weekend dall’inquilino della Casa Bianca. Che ha deciso, anche sotto la pressione dei repubblicani usciti vincitori dalle elezioni di midterm, di autorizzare l’invio nel paese già invaso e occupato da Washington un contingente di ben 1500 soldati a stelle e strisce. Che andranno ad aggiungersi ad un numero quasi eguale di militari già inviati a Baghdad e a Erbil negli ultimi mesi, sull’onda del dilagare delle milizie jihadiste dello Stato Islamico che hanno preso il controllo di importanti città e di vaste zone petrolifere fino ad assediare quasi la capitale di un paese che, anche per colpa di Washington, non esiste di fatto più.

Una invasione temporanea e a fin di bene: è questo il messaggio rassicurante che Obama sta inviando in queste ore all’opinione pubblica statunitense, spaccata tra chi vorrebbe un ruolo militare più deciso da parte degli Stati Uniti in giro per il mondo e chi invece non vuole saperne di dispendiose e inutili missioni militari all’estero in un paese in cui la diseguaglianza sociale cresce di giorno in giorno. I soldati inviati dall’altra parte del pianeta, ha assicurato l’inquilino della Casa Bianca, dovranno formare e addestrare i militari iracheni e curdi e proteggere gli interessi di Washington nell’area, e non dovranno combattere. Truppe non combattenti? Appare difficile in un paese dove un terzo del territorio è occupato dalle bande del Califfato e dove il fronte è lungo e mobile. Ma Obama vuole evitare ad ogni costo di evocare la possibilità che le sue truppe siano state mandate a combattere, e quindi a morire. Almeno fino al giorno in cui i primi soldati di Washington non torneranno a casa avvolti nel lenzuolo bianco come accadeva negli anni successivi alla prima occupazione del paese. Del resto le truppe Usa saranno dispiegate anche nella provincia occidentale di al Anbar, zona sunnita al confine con la Siria, dove i jihadisti non solo controllano gran parte del territorio ma sono pure all’offensiva.

L’amministrazione statunitense rivela sempre più la sua confusione, in particolare sul Medio Oriente. Un quadrante del mondo dove gli eserciti di Washington sono tornati dopo pochi anni di relativa tregua perché Obama sa che non può tirarsi fuori da un’area nella quale, volente o nolente, si stanno giocando i rapporti di forza tra le potenze grandi e piccole. La forza e la capacità egemonica di Washington non è più quella di qualche anno fa: nella regione a comandare sono ora soprattutto gli ex alleati degli Stati Uniti: le petromonarchie e la Turchia. Dopo aver tollerato il dilagare delle milizie jihadiste in tutto il Medio Oriente in chiave antisiriana e antisciita la Casa Bianca ha preso la palla al balzo per proporsi per l’ennesima volta come gendarme mondiale, forte della sua capacità militare ancora incontrastata. Ma questa volta il messaggio di Washington – ci pensiamo noi a ristabilire l’ordine – non è stato accolto con l’entusiasmo di qualche anno fa. Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi e altri regimi feudali dell’area, che hanno creato, addestrato e finanziato i vari gruppi jihadisti per allungare le proprie mani su Baghdad e su Damasco si sono imbarcate nelle operazioni militari di Washington contro l’Isis e al Nusra, ma più per moderarle e frenarle che per rafforzarle. Il loro obiettivo prioritario resta togliere di mezzo l’asse composto da Damasco, Hezbollah, Sciiti iracheni e Teheran e affermare finalmente l’egemonia sunnita su tutta l’area. Obiettivi ai quali la Turchia di Erdogan aggiunge anche i curdi, da contenere all’interno dei propri confini e da disarticolare in Siria anche lasciando fare l’Isis, mentre quelli iracheni continuano ad essere un utile alleato di Ankara. In questo quadro anche Israele persegue i propri obiettivi in maniera ormai indipendente rispetto a Washington, negando ogni possibilità di trattativa con i palestinesi e considerando l’Iran e i suoi alleati il nemico numero uno, in contrasto con Obama che invece sembra ricercare un certo equilibrio sia con i curdi che con Teheran. Un vero e proprio rompicapo per l’ex superpotenza unica mondiale che in crisi di ossigeno e di prospettive sembra navigare a vista priva di un piano strategico. E l’ondata repubblicana alle recenti elezioni, antipasto di quella che potrebbe essere una netta vittoria alle prossime elezioni generali e presidenziali, sembra solo complicare il quadro, promettendo però una recrudescenza dell’attivismo militare statunitense in giro per il mondo.

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