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Siria: nel mirino di Stati Uniti e petromonarchie c’è Assad, non l’Isis

Qualche giorno fa le opposizioni siriane ‘ospitate’ in Turchia e sostenute dalle petromonarchie arabe avevano apertamente accusato l’occidente, e in particolare il presidente statunitense Barack Obama, di aver abbandonato l’obiettivo della rimozione di Bashar al Assad dal potere e di essersi concentrati troppo sulle operazioni militari contro gli integralisti islamici di Al Nusra e dello Stato Islamico. Un attacco che aveva evidenziato in maniera chiara la differenza di strategie tra le potenze regionali emergenti del Medio Oriente e l’anatra zoppa statunitense, in crisi di prospettive oltre che di egemonia. 

Se l’anno scorso i bombardieri statunitensi e francesi pronti a bombardare la Siria avevano ricevuto uno stop all’ultimo momento dovuto allo schieramento della Russia e della Cina a difesa del governo di Damasco, il dilagare delle milizie jihadiste in Siria e Iraq ha ridato fiato alle pulsioni interventiste di Washington e delle potenze europee, mascherate stavolta dalla necessità di frenare l’avanzata dell’estremismo religioso e di rimediare all’emergenza umanitaria causata in tutto il Medio Oriente dal nuovo pericolo, ribattezzato velocemente ‘male assoluto’ da un Obama redivivo. Strategia obbligata per gli Stati Uniti, ma che ha ulteriormente distanziato gli interessi egemonici di Washington rispetto a quelli crescenti delle petromonarchie del golfo e della Turchia, paesi finanziatori e sostenitori dello Stato Islamico così come delle cosiddette “opposizioni siriane moderate”.
La confusione a Washington è enorme, dove evidentemente è in atto un conflitto interno all’establishment che non emerge esplicitamente ma che è visibile se si tiene conto dei continui cambiamenti di posizione da parte del presidente Obama oltretutto ulteriormente indebolito dalle elezioni di medio termine che hanno visto una consistente vittoria repubblicana.
Gli Stati Uniti hanno inviato in Iraq circa 4000 tra soldati, consiglieri militari e mercenari, ufficialmente per garantire la sicurezza delle installazioni e delle rappresentanze diplomatiche di Washington nel paese e naturalmente per sostenere i bombardamenti dei caccia Usa e di altri paesi contro le postazioni jihadiste sia nel Nord-ovest dell’Iraq sia nel Nord della Siria. Ma è evidente che da soli i bombardamenti dall’alto non sortiranno effetti consistenti e duraturi, e si pone ora la questione del ruolo effettivo delle truppe statunitensi inviate nell’area, oltre che di una strategia a lungo termine che vada al di là di sporadici raid che per ora rappresentano poco più che uno spot propagandistico.

Sotto la pressione crescente dell’Arabia Saudita, delle monarchie feudali del Golfo e della Turchia l’amministrazione Obama sta spostando il mirino del suo intervento dallo Stato Islamico al regime siriano. Secondo quanto scrive il normalmente bene informato Alberto Negri su Il Sole 24 Ore, Washington starebbe cercando di convincere il governo russo a rimuovere il proprio niet ad un eventuale intervento militare contro l’esercito siriano, offrendo in cambio una pressione nei confronti dell’Arabia Saudita affinché smetta di aumentare la produzione di greggio che ha causato un crollo delle quotazioni petrolifere ed un enorme danno per le esportazioni russe. Secondo Negri all’esecutivo di Mosca interessa non tanto la permanenza al potere di Assad e della sua cerchia quanto il mantenimento della base militare di Tartus, di vitale importanza per l’accesso della marina russa al Mediterraneo. Se un eventuale governo imposto a Damasco con la forza dall’occidente e dalle petromonarchie dovesse garantire la continuità della presenza militare russa in Siria, affermano alcuni analisti, Mosca potrebbe anche ammorbidire il suo contrasto ai piani di Washington, Parigi, Riad e Ankara.

Si tratta di scenari del tutto ipotetici, e che oltretutto non tengono opportunamente conto della debolezza statunitense di fronte alle crescenti rivendicazioni da parte dei nuovi attori regionali del Medio Oriente, oltre al fatto che la Russia subisce un accerchiamento militare ed economico crescente da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Europea con i quali la conflittualità sembra crescente, rendendo difficile il raggiungimento di un accordo per quanto riguarda il solo scenario siriano.

 

Vedremo. Fatto sta che alcuni giorni fa il presidente Obama ha chiesto ai suoi consiglieri militari più esperti di rivedere la strategia degli Stati Uniti in Siria dicendosi convinto del fatto che i jihadisti dello Stato islamico non potranno essere sconfitti se non si metterà all’ordine del giorno la destituzione di Bashar al Assad anche con l’uso della forza militare. Una presa di posizione arrivata dopo che il segretario di stato John Kerry si era riunito con gli omologhi di 10 paesi arabi e poi con il principe saudita Saud al-Faisal, responsabile agli esteri della monarchia wahabita.
Di fatto il fronte sunnita avrebbe chiesto a Obama e ottenuto un affievolimento delle operazioni militari contro i miliziani islamisti e la ripresa dei piani originari che puntano a imporre a Damasco un ‘regime change’ ad uso e consumo degli interessi delle petromonarchie e dell’Arabia Saudita.
Paesi che non a caso negli ultimi giorni hanno incrementato le proprie dichiarazioni belliciste nei confronti del governo siriano. Come quando il ministro degli Esteri del Qatar, Khalid bin Mohammad al-Attiya, ha affermato che i raid aerei contro i jihadisti dello Stato islamico stanno rafforzando il presidente siriano Bashar al-Assad e rischiano di alimentare ulteriormente le tensioni tra sunniti e sciiti. Se continuiamo a limitare la campagna ai raid aerei, aiutiamo Assad. La questione è: chi andrà a colmare il vuoto? il regime o il popolo siriano che soffre da oltre tre anni e mezzo per la propria libertà e giustizia?”, ha detto il ministro, sollecitando un’accelerazione del programma di addestramento dei ribelli siriani da parte dell’amministrazione statunitense, e suggerendo il dispiegamento di forze speciali arabe (fedeli alle petromonarchie) per garantire il controllo delle zone strappate ai jihadisti dell’Isis ed evitare che vengano occupate dall’esercito di Damasco.
O come quando lo stesso Saud al-Faisal ha affermato che il vero obiettivo dei raid aerei della coalizione guidata dagli USA contro lo Stato Islamico in Siria è rovesciare il regime di Assad. Dichiarazione resa pubblica poche ore dopo lo scoop del quotidiano libanese As Safir secondo il quale Bandar Bin Sultan, ex responsabile dei servizi segreti di Riad, sarebbe a capo di una maxi operazione di finanziamento, con fondi provenienti direttamente dalla casa reale saudita, dei gruppi islamisti più radicali attivi in Siria contro il governo e contro la guerriglia curda. Questo mentre sul terreno due rami del jihadismo finora relativamente in concorrenza tra loro – Isis e Fronte al Nusra (braccio di Al Qaeda in Siria) – hanno rafforzato la loro cooperazione anche sulla base delle pressioni da parte dei “paesi donatori”.

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