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Europa contro Google? Una partita (tedesca) persa

Il recente voto del Parlamento europeo sulla necessità di dividere la ricerca dallo sfruttamento commerciale, per quanto riguarda la Rete, è un indicatore potente dei contrasti – di interesse, non ideologici – che dividono il capialismo europeo da quello anglo-statunitense.

L’assembea di Strasburgo ha approvato a larga maggioranza – 384 sì, 174 no e 56 astenuti – la risoluzione che appare neutramente intenzionata a salvagardare il principio della concorrenza anche nel mercato delle ricerche in rete. Quel che a noi utilizzatori finale e altamente inconsapevoli appare “una ficata” – ricerche gratuite, rapide , precise – è infatti il risultato di uno scontro scientifico-commerciale (la scienza finalizzata al business) che al momento vede Google in posizione di quasi monopolista, visto che controlla il 90% del settore in Europa.

Notevole anche il fatto che il testo votato sia una stesura bipartisan, come si dice, che vede accomunati finti socialdemocratici e autentici conservatori, tanto che il primo firmatario risulta il popolare tedesco della Cdu, Andreas Schwab, fedelissimo di Angela Merkel. La risoluzione, infatti, riprende alcuni tempi centrali di una legge tedesca, approvata nel 2013 e entrata in vigore questa estate, per la protezione degli interessi dei produttori di contenuti. Insomma: gli editori di giornali, libri, siti online, ecc. Aveva fatto impressione, in proposito, lo scorso aprile, una lettera scritta da Mathias Doepfner, il numero uno del più grande gruppo editoriale in Europa, Axel Springer, ad aprile scrisse una lettera in cui accusava il colosso californiano di voler istituire un monopolio e uno Stato sovranazionale, di favorire le proprie aziende, di essere poco trasparente.

Tutte accuse vere, ma in pesante contrasto con le contemporanee trattative per un trattato di libero commercio tra le due sponde dell’Atlantico (Ttip), tanto da far sospettare che la Germania non sia proprio entusiasta di poter perdere la centralità acquisita nel sistema economico continentale a favore di concorrenti assai più potenti e globalizzati come quelli statunitensi.

Di fatto, la risoluzione votata da Strasburgo chiede la divisione sistematica di ogni “motore di ricerca” dai servizi commerciali possibili in base ai risultati delle ricerche, per “prevenire ogni abuso nel marketing dei servizi interconnessi agli operatori dei motori di ricerca”. E’ noto infatti che ogni volta cerchiamo qualcosa tramite Google o Yahoo o altri “motori” la nostra richiesta viene recepita, filtrata, schedata; va a comporre un puzzle da cui emerge, in progress, il nostro “profilo”. Ovvero il complesso di interessi, preferenze, opinioni, comportamenti, in ogni campo possibile, compresi quelli che pubblicamente – nei contatti fisici interpresonali – preferiamo sottacere o negare. In definitiva, la nostra vera identità.

A chi e a cosa serve il nostro “profilo”. In seconda battuta ai servizi di sicurezza del paese di cittadinanza (basta che la polizia chieda a Google o altri motori la nostra “scheda”). Ma serve soprattutto ai proprietari del “motori”, che possono rivenderlo alle multinazionali della pubblicità per impostare campagne mirate. È uno “spreco”, dal punto di vita capitalistico, condurre campagne generiche, senza un target ben preciso e ben delimitato. Si spendono inutilmente soldi per produrre spot e slogan inefficaci, e per diffonderli su mezzi di comunicazione magari non utilizzati da chi potrebbe essere interessato a quel prodotto. Il “profilo” semplifica tutto. Si possono fare campagne sapendo che ci si rivolge esattamente a quel tipo di potenziali compratori; soprattutto, si può “solleticare” l’interesse sapendo quali e quanti sono i punti deboli di quel tipo di target.

Il successo planetario di Google, il suo fatturato inconcepibile, la sua capitalizzazione di borsa, dipende dunque da una ricerca scientifica per il business. Di così alto livello da aver spianato ogni possibile concorrente o quasi (i cinesi hanno risposto con Baidu, che però ha solo il 16% delle ricerche globali, contro il 70% di Mountain View).

Non solo. In questo modo qualsiasi contenuto messo online viene memorizzato istantaneamente e messo a disposizione di chiunque gratuitamente. Il che distrugge o limita fortemente il business dei produttori di contenuti, che vorrebbe esser pagati per il lavoro che hanno fatto (o fatto fare). Di qui l’alzata di testa di Springer, la legge tedesca, il voto di Strasburgo. Il quale, pur non essendo “vincolante” per la Commissione europea (nello schema istituzionale dell’Unione, ricordiamo, il Parlamento non conta un tubo, visto che non possiede il potere legislativo, contravvenendo allo schema liberal-democratico chiesto invece ai “diversi dall’Occidente”), resta comunque un pesante segnale politico di frizione tra interessi europei e statunitensi. A cominciare dalle rispettive multinazionali.

Questo voto ha messo immediatamente a nudo anche la contrapposizione tra “governo” europeo e Parlamento, visto che quasi tutti i commissari interpellati si sono mostrati freddi o apertamente contrari alla risoluzione. Ed ha anche diviso i governi nazionali tra loro (Merkel e Hoolande sono ovviamente favorevoli, Renzi e Cameron contrari), quindi tra “indipendentisti europei” e “filoamericani”. Ci sarà rimasto male Carlo De Benedetti, patron del gruppo Repubblica-L’Espresso, che ha creato insieme a Mediaset il mostriciattolo Renzi, e si era pubblicamente speso per il sostegno a Spinger e gli altri editori europei (“la concorrenza europea è messa a rischio dalla trasformazione dei motori di ricerca nelle porte d’ingresso principali della rete”).

Lo stesso commissario europeo alla concorrenza, Margrethe Vestager, ha fatto capire che la Commissione se ne fregherà altamente: “è importante notare che l’applicazione della legge dell’antitrust Ue deve restare indipendente dalla politica. Inoltre è obbligo della Commissione rispettare i diritti di tutte le parti e restare neutrale e giusta: questi sono valori cruciali della legge sulla concorrenza”. Inutile soffermarsi sulla contraddittorietà delle singole frasi (una “legge indipendente dalla politica” è come un urlo sottovoce; e il “rispetto di tutte le parti” fa a cazzotti col principio che una parte possa aver ragione e un’altra torto), perché la Commissione andrà avanti per la sua strada, come indicato dal suo vero faro di riferimento: gli interessi del capitale multinazionale. Ovvero apolide, con unica priorità la dimensione del fatturato o della capitalizzazione.

La questione, proprio per il suo carattere “universale”, non riguarda però solo Google. Anche Facebook, Twitter e altri social network “gratuiti” per il singolo consumatore, funzionano nello stesso modo: traggono profitto direttamente dalla vendita di servizi pubblicitari o dei “profili” dei propri utenti (che andrebbero a questo punto chiamati “consumati”, anziché consumatori). Oltre ad essere altrettante efficientissime macchine per l’autoschedatura al servizio – on demand – delle polizie nazionali. Chiedere a Edward Snowden per conferma…
Dal punto di vista del “principio della concorrenza”, infatti, la domanda è tutta un’altra: Google (o Facebook, in altro modo) abusa della sua posizione dominante?
La questione è complicata dal fatto che, diversamente dai settori dell’economia “pesante”, gli investimenti necessari per avere successo in Rete sono notevolmente più bassi. Quindi, argomentano i filo-Google, la regolamentazione in proposito dovrebbe essere molto più limitata, visto che nessuno – nella Rete – può davvero impedire ad altri di affermarsi. E vengono portati esempi di altri prodotti che si sono affermati “con poco”, come Instagram e WhatsApp. Che a loro volta sono rapidamente diventati dei quasi monopoli nella propria “specialità”. Siamo nella classica situazione-limite, per cui il principio della concorrenza entra in conflitto con quello dell’efficienza. I vari “monopolisti digitali”, infatti, sono diventati tali per aver raggiunto il massimo dell’efficienza nei rispettivi campi. Se si usa WhatsApp per messaggiare non si raggiungerà chi usa un altro prodotto, quindi la messaggistica diventa veramente universale solo se usiamo tutti lo stesso sistema. È l’equivalente di un “monopolio naturale”, ma nel mondo virtuale.
Nel virtuale, comunque, il “dominio monopolistico” sembra durare meno. Microsoft, per esempio, dopo quasi 40 anni sta faticando a mantenee lo stesso modello di business (ogni pc prodotto va caricato con Windows). E Facebook sta erodendo parte dei profitti pubblicitari della stessa Google. Qui, insomma, quando entrano nel mercato “prodotti” più innovativi, si crea molto rapidamente un nuovo universo di consumatori-consumatiche scaccia il vecchio monopolio con un altro. Ma quasi senza “concorrenza”, in ogni caso. O meglio: la concorrenza si sposta dalla competizione fra prodotti simili (esempio: due browser di navigazione) alla creazione di un prodotto che azzera quelli precedenti, imponendo un nuovo standard universale. Ma proprio questa dinamica spiazza irreparabilmente la possibilità di regolare la concorrenza per via legislativa, aprendo la strada a un monopolismo “temporaneo”. In nome del “libero mercato”, per sommo – ma apparente – paradosso.
Per i “produttori di contenuti”, sia in forma tradizionale come Springer, sia in forma “innovativa” come quelli online, si è aperto da tempo un futuro assai gramo, in cui la merce prodotto con una certa fatica e qualche costo – lo sappiamo bene anche noi, che “produciamo” informazione in forma gratuita – non restituisce il profitto atteso, ma prospettive di perdite crescenti. D’altro canto, senza produzione di contenuti, che diavolo mai metterebbe a disposizione Google? Mentre Facebook o WhatsApp o Twitter, infatti, sono pure piattaforme di scambio di contenuti “autoprodotti” da utenti generici (quasi sempre insignificanti al di fuori di ristretti gruppi, a costo zero e di utilità in genere nulla o molto limitata), Google consente invece l’accesso a informazioni anche di grande utilità. Diciamola così: la crescita delle aziende che producono le piattaforme entra in conflitto con la crescita delle aziende che producono contenuti “certificati”, di interesse universale. Detta ancora altrimenti: l’aumento della comunicazione entra in contraddizione con la possibilità di crescita del sapere. A meno di non prevedere – il che richiede una normativa cogente di estensione planetaria – una remunerazione certa per i produttori di contenuti certificati (singoli, aziende, università, editori, ecc).

Fuori da questo vincolo, insomma, la competizione fra “il modello Google” e la normativa europea è un puro scontro tra imperialismi economici. Con il Vecchio Continente a fare la parte degli “arretrati” davanti a “ggiòvani” rampanti. L’esempio di Uber – il servizio che minaccia di smantellare radicalmente il business storico dei taxi, sostituendo i “professionisti” con chiunque possieda un’auto, abbia qualche minuto libero e bisogno di guadagnare qualche spicciolo – ci sembra quasi autoevidente.

E se davvero a decidere le sorti dello scontro sono i margini di profitto sul fatturato, allora per aziende come Springer (700 milioni l’anno) sarà impossibile contrastare gente come Google (14 miliardi).

E infatti la reazione di Google è stata quasi devastante: gli editori che vogliono comparire su Google News – con tanto di link e snippet – sono stati invitati a recedere esplicitamente dalle restrizioni imposte dalla legge tedesca. Come dire: se non ti metto io in comunicazione col mercato globale, il tuo business resta un fatterello locale. È insomma l’affermazione che il valore economico del link è superiore a quello della merce-informazione. Anche se i costi di produzione sono infinitamente minori.

Se ne deve essere accorto anche il gruppo Spinger, che riceve il 60% dei ricavi dal mercato digitale. Scendere a patti, insomma, è la scelta più probabile. Con buona pace del “sacro principio della concorrenza”.

 

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