Alla fine il grande vecchio del sistema tunisino ce l’ha fatta: Beji Caïd Essebsi è il nuovo presidente della Repubblica con oltre il 55% dei consensi. Il primo democraticamente eletto, chiosano molti commentatori, puntualizzazione reale visto che la Tunisia post coloniale nasceva da colpi di mano di Bourguiba e Ben Ali. Essebsi li ha serviti entrambi con ministeri d’alto profilo e grande potere: esteri e interni. Per tacere dell’era dell’affarista-dittatore e di sua moglie Trabelsi, fase degli enormi profitti per imprenditori vicini al clan e investitori esteri, e di ben poco riscatto per i lavoratori usati come manodopera a bassissimo costo. Così il Paese è giunto alla soglia del Terzo millennio con la voglia di fuga di milioni di giovani disoccupati, le carrette del mare e la disperazione dell’ambulante Bouazizi fino alle scintille di rivolta. L’aria di primavera passata anche per l’interpretazione governativa dell’islamismo moderato di Ennahda, e per le predicazioni jihadiste di Ansar Al-Sharia, è sfiorita. Quell’aria aveva anche volti innovatori laici, come quello dell’altro candidato alle presidenziali, nonché presidente uscente, Moncef Marzouki. Ma non ce l’ha fatta.
Il Paese ha scelto l’usato sicuro che sa di passato e tende le mani a imprenditori che tessono buoni rapporti nel bacino d’un Mediterraneo amante del colonialismo di ritorno, stabilito in buona parte del Maghreb, dalle tante multinazionali dei servizi (la francese Veolia è uno dei colossi più noti). Fra lo giubilo dei suoi supporter nella capitale e le contestazioni della vittoria, registratesi in città periferiche come Hamma, Essebsi, dopo una campagna che marcava il bipolarismo, ha scelto la via della conciliazione. Così ha ringraziato Marzouki per il contributo al confronto. Nel partito Nidaa Tounes che a inizio novembre sempre lui, il grande vecchio, ha condotto al successo delle politiche, scalzando l’esecutivo islamista, sono in tanti a non pensarla così. Vogliono un pieno riscatto non solo della laicità dello Stato attaccatto, a loro dire, dai venti di Shari’a, ma amano soprattutto ristabilire i legami coi simboli dell’Occidente che conta e gongolano delle congratulazioni che lo stesso Obama ha rapidamente offerto al nuovo presidente. Rispolverando il patriottismo dei regimi cui ha prestato servigio Essebsi vellica il sentimento che una parte della nazione getta in faccia all’Islam politico additato come un enorme pericolo.
E il mondo, che delle Primavera arabe s’è fatta un concetto manicheo, vede nella soluzione democratica tunisina una possibile terza via fra lo spettro dello Stato Islamico diffuso col terrore (sui territori siriano e del Kurdistan iracheno, sino al caos del banditismo libico) e il pugno di ferro offerto dalla restaurazione del generale egiziano Sisi. Gli oppositori a Essebsi di sponda laica sottolineano i pericoli insiti nella scelta che sa d’antico. Per loro la deriva verso uno Stato forte, che archivierebbe l’attuale fase restituendo strapotere agli organismi polizieschi, rappresenta uno spettro reale. Quel sistema che dietro i sorrisi di Ben Ali, il suo modernismo tecnologico tuffatosi nel business, l’adesione all’Internazionale socialista e a ogni sorte migliore e progressiva, celava galera e tortura per gli oppositori, il caso di Marzouki è sintomatico. E nascondeva molti dei problemi irrisolti della Tunisia attuale, dai più disastrosi (miseria, disoccupazione, migrazione forzata) a quelli preoccupanti per la politica (terrorismo, integralismo, violenza), e per il sistema amministrativo (corruzione, clientelismo, giustizia a due velocità). Tutti ancora vivi, sventolati nella propaganda elettorale di Essebsi contro l’ultimo avversario di turno, come se lui, il nonno, fosse esente da responsabilità.
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