Il Paese Basco ha solo 3 milioni di abitanti che vivono ai due lati dei Pirenei e della frontiera tra Stato Spagnolo e Stato Francese. E le 80 mila persone che ieri pomeriggio sono scese in piazza a Bilbao per chiedere la fine della dispersione carceraria dei prigionieri politici baschi e il rispetto dei loro diritti conculcati dai governi di Madrid e Parigi valgono proporzionalmente come se a Roma una mobilitazione nazionale avesse visto la partecipazione di un milione e mezzo di persone.
L’anno scorso, sempre all’inizio di gennaio, i partecipanti alla consueta marcia di Bilbao erano stati alcune decine di migliaia in più (anche perché il corteo si era svolto dopo la proibizione da parte dell’Audiencia Nacional di una marcia precedentemente convocata), ma il risultato è comunque incoraggiante, nonostante le polemiche suscitate in alcuni settori della sinistra indipendentista dal progressivo allentamento della storica richiesta di amnistia per tutti i prigionieri politici a favore di rivendicazioni più minimaliste e più compatibili con un sistema carcerario e politico che Madrid non ha nessuna intenzione di modificare.
I due serpentoni si sono mossi poco prima delle 18, con una ventina di minuti di ritardo sull’orario di convocazione ed hanno sfilato fino a confluire in Piazza Zabalburu dove alcuni rappresentanti delle associazioni promotrici hanno letto un comunicato ufficiale dopo l’intervento di alcuni “bertsolari” (poeti improvvisatori) e di alcuni artisti. Prima che le luci accese dai manifestanti formassero le scritte “Now” (ora, in inglese) e “Euskal Herria” (Paese Basco, in euskera) in una rilettura dello storico slogan “Euskal presoak euskal herrira” (I prigionieri baschi nei Paesi Baschi) hanno preso la parola anche Saroi Jauregi e Fermin Muguruza, quest’ultimo da tempo testimonial poliedrico delle rivendicazioni basche di libertà in tutto il mondo. Dopo l’intervento di alcuni familiari dei prigionieri è toccato a Joseba Azkarraga, portavoce del coordinamento Sare, esprimere la speranza che quella di quest’anno sia l’ultima manifestazione contro la dispersione e che a mobilitarsi sono stati decine di migliaia di cittadini di ideologie politiche diverse a dimostrazione di una richiesta di giustizia trasversale alla società basca.
Fino all’arrivo a destinazione la manifestazione di ieri era stata in buona parte silenziosa, per decisione degli organizzatori, anche se gli applausi degli stessi partecipanti e di chi vi assisteva dai lati delle strade percorse dal corteo hanno più volte rotto il silenzio, così come gli slogan dei settori più radicali che non hanno voluto rinunciare a far sentire la propria voce e a gridare “Euskal Presoak, etxera” (i prigionieri baschi a casa).
Ad aprire i due cortei, poi confluiti in uno soltanto, un migliaio di familiari dei prigionieri e delle prigioniere che reggevano le bandiere con il simbolo del ‘rimpatrio’. Niente cartelli con le foto dei loro cari ben in vista, come in altre occasioni, forse perché negli ultimi anni le sedi sociali e i singoli manifestanti che li esponevano siano stati denunciati per “incitamento al terrorismo”. Ad accompagnarli nella marcia dieci furgoncini “Mirentxin”, a bordo dei quali ogni fine settimana molti di loro viaggiano fino alle carceri lontane anche mille chilometri e più per poter partecipare a colloqui di pochi minuti. Un “castigo supplementare”, denunciano i promotori della manifestazione, sia contro i prigionieri che secondo la legge spagnola dovrebbero scontare la pena nelle carceri del proprio territorio di residenza, sia contro i loro familiari che ogni settimana devono sobbarcarsi viaggi lunghi, costosi e pericolosi e spesso devono subire le aggressioni – insulti, gomme forate, lanci di pietre – degli estremisti di destra spagnoli. Decine di loro sono morti o sono rimasti gravemente feriti in incidenti stradali che hanno allungato la già tragica lista delle vittime di un conflitto che il governo di Madrid avrebbe potuto chiudere decenni fa rispettando i diritti minimi di un popolo che li reclama testardamente.
“I prigionieri sono già privati della loro libertà ma la dispersione impone una condanna supplementare: tenerli lontani dall’affetto dei loro amici e familiari” racconta ai giornalisti Jone Artola, portavoce dell’associazione Etxerat, che quattro mesi è stata vittima di un incidente stradale proprio mentre andava alla prigione di Alboccaser, vicino Alicante, a visitare il figlio Ugaitz, condannato per “kale borroka” (guerriglia urbana). A causa delle ferite riportate, spiega Artola, “non sono più potuta andare a trovare Ugaitz, ed è la cosa che mi fa soffrire di più”. “Mio figlio sta nel carcere di Jaen, in Andalusia. Quando andiamo a trovarlo dobbiamo fare un viaggio di otto ore per una visita di soli 40 minuti con un vetro che ci separa” racconta invece Mayi Ugartemendia, madre di un altro prigioniero politico. “Bisogna rompere il blocco dell’informazione che noi familiari continuiamo a subire” denuncia Rafael Larretxea, padre di un detenuto politico che sconta la pena a Herrera de la Mancha, vicino a Madrid. “La política del ‘tutto è ETA’, che ha portato a condannare molta gente, è penetrata molto a fondo nell’opinione pubblica spagnola, per la quale anche noi siamo in fondo dei sostenitori del terrorismo”.
Tre anni e tre mesi dopo l’annuncio della fine definitiva delle azioni armate da parte dell’ETA e ben cinque anni e mezzo dopo l’ultimo attentato mortale dell’organizzazione nata per combatter contro il franchismo, i governi di Madrid e Parigi continuano a disperdere i prigionieri baschi – solo cinque di loro, su quasi 500, scontano la pena vicino a casa – e a negare loro i più elementari diritti. La guerra è finita, da tempo, ma sembra che lo Stato Francese e quello Spagnolo proprio non vogliano e non riescano a rinunciare a combatterla. E così, le carceri continuano a riempirsi di attivisti sindacali e sociali, di giovani e studenti, di intellettuali e giornalisti, di dirigenti politici. In molti, nel Paese Basco, continuano a chiedersi quanto potrà durare un ‘processo di pace’ senza interlocutori e senza progressi…
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