Il campo giallo con la stella rossa che garrisce al vento, immagine antica, piuttosto retorica, letta in cento poesie di patrie e soldati e guerre, di gente che combatte e crepa alla maniera antica, col fango sugli scarponi e la polvere fra i denti, riappare come se il mondo si fosse fermato.
Nell’epoca dei droni – diffusori d’una morte asettica che preserva l’uccisore da rischi e dall’angoscia di vedere l’effetto della violenza portata, rendendolo killer più di qualsiasi cecchino – lo scontro di terra vissuto, rischiato, sofferto per mesi, casa per casa, da guerriglieri e guerrigliere del Rojava riempie di significato la posa della bandiera delle Unità di difesa del popolo kurdo.
E’ un simbolo in bella mostra sulla collinetta dominante la spianata immensa verso il confine turco. La possono intravedere le migliaia di profughi accampati a Suruç e nelle tante tendopoli predisposte da organizzazioni umanitarie e militanti. E’ un simbolo dal valore immenso, non solo di vittoria che giunge da donne e uomini capaci di guardare fieri il destino e non rinunciare a difendere anche con le armi i luoghi della loro vita, contro gli ultimi nemici dai drappi neri o contro chiunque volesse privarli dell’autodeterminazione.
Rappresenta il progetto di civiltà futura del loro microcosmo, in una fase in cui la perfezione del mondo a dimensione occidentale è squassata da mille discordanze. La società dei kurdi del Rojava è basata su rapporti democratici; sul fronte economico sostiene uno sviluppo egualitario dettato dal concetto “a ognuno secondo il suo lavoro”, incentiva scienza e tecnologia preservando gli interessi di lavoratori e consumatori, e vuole tutelare l’ambiente. Sul piano dei diritti c’è massima garanzia per donne e bambini. Le prime possono e devono esprimersi nelle sfere politiche, socio-economiche e culturali. Ai piccoli dev’essere assicurato un futuro dignitoso sul piano della crescita, dell’istruzione, della collocazione sociale. Non un’utopia, ma un progetto semplice e coraggioso che sta facendo i conti con l’emergenza d’un assedio e una guerra distruttivi e ora col consolidamento della liberazione, della ricostruzione, di prossime difese.
Verso le quali si muove solo l’afflato umanitario e la solidarietà militante, non le nazioni ricche e forti, osservatrici passive o galanti verso il califfo Baghdadi.
Un domani che può ripartire sotto una “luce del sole più matura… nelle ciglia, agli angoli degli occhi, il biancore baroccamente friabile, gli stracci di lana, le giacchettacce bige e i calzoni sfilacciati… la calura oppressa dal ricordo di primavere sepolte da secoli, in quegli stessi sobborghi o paesi, e pronte, Dio! pronte a rinascere su quei muretti, su quelle strade, imbevuti di strano profumo, asiatico – primule, strame, passaggi di vecchie pecore scure, fiorivano nel tepore i meli, i ciliegi. E il colore rosso aveva una brunitura, come se fosse immerso in un’aria di caldo temporale, un rosso quasi marrone, ciliegie come prugne… occhieggiava quel rosso come volesse godersi quel tepore in cui fiatava il mondo, quelle grida di operai, che erano quasi silenzio, solenni e attutite… E, su tutto, lo sventolio, l’umile, pigro sventolio, delle bandiere rosse. Dio! le belle bandiere a sventolare una sull’altra, in una folla di tela, povera, rosseggiante, un rosso che traspariva violento, con la miseria delle tovaglie… ma col fuoco delle ciliegie, dei pomi, violetto… ardente rosso affastellato e tremante, nella tenerezza eroica d’un’immortale stagione”. Così Pier Paolo Pasolini nel ricordo di battaglie che avevano cuore. Quello di chi resiste e guarda al futuro. Come fanno i kurdi del Rojava.
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