Continuano in tutte le diverse regioni del Kurdistan – in Siria, Turchia, Iraq e Iran – i festeggiamenti del popolo curdi per la liberazione di Kobane dopo 134 giorni di assedio e parziale occupazione da parte delle bande jihadiste dell’Isis. Centinaia di migliaia di curdi hanno festeggiato nelle strade e nelle piazze dei loro villaggi e delle loro città, galvanizzati da una vittoria ottenuta grazie a una strenua resistenza e grazie soprattutto alle proprie forze, se si escludono alcuni bombardamenti mirati della ‘coalizione’ guidata dagli Stati Uniti che ha mirato più a indebolire le milizie fondamentaliste sunnite che a distruggerle.
Invece il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e il suo entourage non hanno nulla da festeggiare ed anzi si trovano di fronte ad una situazione che li preoccupa. La Turchia ha apertamente sostenuto – e in parte sostiene ancora – le milizie jihadiste sunnite che combattono contro i curdi, le forze del governo di Damasco ed Hezbollah in Siria e contro le truppe di Baghdad, le milizie sciite e quelle del governo regionale curdo in Iraq. Ma ora la vittoria dei curdi a Kobane potrebbe far saltare tutta la strategia di Ankara, che vede agitarsi sempre più forte lo spettro di una crescente unificazione dei popoli e delle forze politiche e militari curde ai due lati della sua frontiera. Mentre Ankara metteva a disposizione dei jihadisti gli ospedali ed alcune installazioni nel sud del paese, oltre a finanziamenti diretti e indiretti e il rifornimento di armi, molti dei combattenti arrivati a Kobane per difendere la città dagli assalti dell’Isis provenivano dalle città curde di Turchia. Città nelle quali negli ultimi mesi centinaia di migliaia di manifestanti hanno veementemente protestato contro la complicità dell’Akp con gli aggressori islamisti di Kobane, sottoposti ad una durissima repressione da parte delle forze armate turche, di gruppi fondamentalisti sunniti e squadracce di estrema destra che ha provocato la morte di decine di manifestanti.
Il presidente turco ha ironizzato velenoso sulla nuova situazione: “Ballano il ciftetelli (…) ma che cosa e’ successo? L’Isis é stato cacciato da Kobane. Ok. Ma chi ora ricostruirà le zone bombardate?”. E poi, in riferimento alla strategia di Washington il capo di stato turco ha detto: “Li ho avvertiti, non buttate queste bombe, fate un errore”.
La distanza tra Ankara e Washington si è allargata nel momento in cui, l’estate scorsa, l’amministrazione Obama – che era stata fino ad allora tollerante o comunque disinteressata nei confronti dell’avanzata dell’Isis e di Al Nusra (Al Qaeda) in Siria e Iraq – ha deciso di intervenire per tentare di ritardarla, entrando così in contraddizione con i piani del governo turco. Gli Stati Uniti hanno più volte chiesto alla Turchia di collaborare militarmente contro l’Isis e di mettere a disposizione delle truppe statunitensi e degli altri paesi della ‘coalizione’ le basi aeree del sud della Turchia – in particolare quella Nato di Incirlik – ma Erdogan e Davutoglu hanno sempre risposto picche. In cambio chiedevano infatti il via libera Usa all’invasione turca del nord della Siria che avrebbe permesso ad Ankara di sbaragliare la resistenza curda e al tempo stesso di occupare una porzione di territorio siriano, avanzando così in quel processo di destabilizzazione del governo di Damasco che la Turchia persegue da tempo. Ma Washington non ha potuto e voluto concedere il via libera alle truppe turche che, nei fatti, hanno chiuso a nord l’accerchiamento di Kobane – già assalita dall’Isis a sud, ovest ed est – sigillando il confine e impedendo ai volontari curdi di andare a combattere nel confinante Rojava e a molti feriti provenienti dalla città assediata di rifugiarsi e curarsi in territorio turco. Una strategia che mirava a rovesciare il governo Assad per sostituirlo con un governo islamista amico e dall’altra parte a impedire la saldatura tra le forze della resistenza curda di Turchia e quella di Siria, potendo Erdogan contare sui suoi buoni rapporti con la classe dirigente delle regioni curde del Nord dell’Iraq.
Sembrava che Kobane dovesse cadere, ma la resistenza dei suoi abitanti e dei volontari inquadrati nelle Ypg, nelle Jpg e nel Pkk ha avuto la meglio.
Ora, paradossalmente, è la stessa Turchia – insieme all’Arabia Saudita, altro grande padrino dell’ondata jihadista in Medio Oriente – ad essere minacciata dalle bande dello Stato Islamico. Sono molte migliaia i turchi che si sono arruolati – per convinzione o opportunismo – nelle milizie dell’Isis, e secondo l’intelligence di Ankara nel paese esisterebbero addirittura 3 mila cellule dormienti agli ordini del califfo Al Baghdadi pronte a rivoltarsi contro l’ex benefattore Erdogan. L’attentato kamikaze che poche settimane fa ha colpito un commissariato di polizia a Sultanahmet, il quartiere turistico di Istanbul, realizzato presumibilmente dalla vedova di un jihadista caucasico, potrebbe essere un segnale da non sottovalutare.
E naturalmente il governo di Ankara teme fortemente la formazione di un Kurdistan siriano indipendente o fortemente autonomo, perché questo potrebbe avere forti ripercussioni a livello interno ed anche sull’atteggiamento dei curdi iracheni, finora non certo ostili agli interessi turchi. “Non vogliamo una ripetizione della situazione nel Nord dell’Iraq. Non possiamo accettare ora una sua nascita nel Nord della Siria”, ha detto il capo dello Stato turco a un gruppo di giornalisti sull’aereo che lo ha riportato in patria dopo un tour in Africa. “Dobbiamo mantenere la nostra posizione su questo, altrimenti sarà una Siria del Nord come l’Iraq settentrionale. Questa entità è una fonte di grande difficoltà per il futuro”, ha detto il presidente Erdogan, cosciente anche del fatto che la Turchia appare sempre più indebolita ed isolata rispetto ai suoi partner strategici dell’Unione Europea e della Nato. Di cui paradossalmente la superba Turchia dovrebbe ora poter aver bisogno per ridimensionare la vittoria curda e frenare una possibile ribellione dei suoi pupilli dell’Isis.
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