Arresti e perquisizioni facili e intercettazioni senza l’obbligo del via libera da parte di un giudice. Il nuovo “pacchetto per la sicurezza interna” proposto dal governo islamista darà maggiori poteri a polizia e prefetti.
La nuova bozza, già approvata dalla commissione Interni del Parlamento, prevede che gli agenti possano perquisire un sospetto, senza chiedere l’autorizzazione previa di un magistrato come previsto dalle leggi in vigore e usare a loro discrezione armi nel caso i manifestanti “li minaccino con molotov o oggetti contundenti”. Un vero e proprio via libera legislativo all’uso indiscriminato, già ampiamente in voga nel paese contro i curdi e i manifestanti di sinistra, delle armi da fuoco.
Inasprite anche le pene per “travisamento”. Coprirsi il volto durante le manifestazioni o “fare propaganda per organizzazioni terroristiche” comporterà una condanna da tre a 5 anni di carcere. “Chi indosserà maschere anti-gas o fazzoletti davanti al volto semplicemente per proteggersi dai lacrimogeni” come durante le manifestazioni per la difesa del parco Gezi della scorsa estate “potrà subire condanne pesanti”, spiega il quotidiano di centrosinistra Cumhurriyet. Come se non bastasse, in casi “urgenti” la polizia potrà intercettare le conversazioni telefoniche dei sospetti per 48 ore senza l’ok dei pm.
Per il governo di Davutoglu e il presidente Erdogan il nuovo giro di vite sarebbe necessario a garantire l’ordine pubblico, ma associazioni per la difesa dei diritti umani e le opposizioni di centrosinistra e sinistra sono preoccupate che le nuove norme facciano della Turchia uno “stato di polizia” più di quanto non lo sia già dando alle forze di sicurezza poteri di fatto illimitati e insindacabili.
Grazie alla forte opposizione dei partiti antigovernativi, il parlamento di Ankara ha dovuto rimandare a martedì prossimo il dibattito sul progetto di legge. Per evitare la discussione del provvedimento i partiti di opposizione hanno fatto mancare per ben tre volte il numero legale, obbligando l’esecutivo dell’Akp a decidere un rinvio, seppure di pochi giorni. I liberal-islamisti hanno anche deciso di non riunire il parlamento domani, come invece chiesto dal governo che voleva far approvare le misure con urgenza. Il partito Hdp, che riunisce le formazioni della sinistra curda e alcune della sinistra turca, per bocca del suo co-presidente Selattin Demirtas, ha invitato gli altri due partiti dell’opposizione di centrosinistra – il Chp (Partito Repubblicano del Popolo, repubblicani) – e di destra – l’Mhp (Partito del movimento nazionalista) – a “bloccare il parlamento” per impedire l’approvazione della contestatissima legge.
Nei piani di Erdogan, se le elezioni parlamentari di giugno concederanno al suo partito una maggioranza ancora più ampia di quella di cui dispone attualmente, una riforma della Costituzione in senso presidenzialista che conceda un ulteriore accentramento dei poteri nelle mani del capo dello stato.
A soli quattro mesi dalle elezioni legislative, il tentativo da parte dell’oligarchia dell’Akp di impossessarsi di tutte le leve del potere passa anche all’interno degli assetti finanziari del paese in quella che si sta configurando come una vera e propria resa dei conti nei confronti dell’opposizione, anch’essa islamista guidata dal potente imprenditore/predicatore Fethullah Gulen.
Con un vero e proprio blitz, un fondo governativo è riuscito a prendere il controllo del gruppo bancario “Asya”, definito dai media turchi il ‘braccio finanziario’ della confraternita Hizmet guidata dall’imam esule negli Stati Uniti, ex padrino di Erdogan e poi suo strenuo competitore.
La presa di controllo della Banca Asya – la decima del paese e la prima islamica, accusata di “violazione delle norme sulla trasparenza” – da parte del Fondo di garanzia Tmsf, per ordine dell’Autorità bancaria governativa Bddk, è l’ultimo atto di uno scontro di potere all’ultimo sangue fra i due ex alleati nella scalata al potere.
La reazione al blitz degli ambienti politici e mediatici vicini a Hizmet e di opposizione è stata durissima e il metodo usato, con il defenestramento durante la notte del consiglio di amministrazione e l’invio della polizia nella sede centrale del gruppo finanziario, ha ulteriormente acceso gli animi. “Queste cose succedono solo nei regimi dittatoriali” ha tuonato il quotidiano Zaman, di proprietà di una holding che fa capo a Gulen. Per l’opposizione repubblicana il deputato Mahmut Tanal ha parlato di una “operazione politica, un sequestro di fatto, che ignora la legge”. Il nazionalista Kemalettin Yilmaz (Mhp) ha avvertito che la manovra rischia di “appiccare un incendio” a tutto il settore bancario. Dagli Usa, dove risiede, Gulen ha detto che la Turchia di Erdogan scivola verso il “totalitarismo”: i suoi dirigenti “rivendicano di avere un mandato assoluto perché hanno vinto le elezioni. Ma la vittoria non li autorizza a ignorare la costituzione o a sopprimere il dissenso”.
Numerose critiche e polemiche ha suscitato poi un decreto legge governativo, firmato sia dal presidente Erdogan che dal primo ministro Davutoğlu alla fine di gennaio, che ha stabilito che lo sciopero dei metalmeccanici in corso da alcuni giorni costituiva una “minaccia per la sicurezza nazionale” e lo ha quindi interrotto d’autorità. D’altronde il codice penale turco contiene una norma – la legge 6356 “sui Sindacati e gli Accordi Collettivi di Lavoro” – che prevede che “uno sciopero o un blocco legale, che siano stati indetti o iniziati, possono essere sospesi per un periodo di 60 giorni dal Consiglio dei Ministri con un decreto, nel caso in cui ci sia pregiudizio per la salute pubblica o per la sicurezza nazionale. La sospensione entra in vigore nella data della pubblicazione del decreto”.
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