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Cina: l’incubo dello Stato Islamico preoccupa Pechino

Anche se geograficamente appare lontana, la Cina si ritrova in qualche modo in prima linea nel conflitto contro lo Stato islamico (l’ex Isis), organizzazione jihadista spesso rappresentata come antagonista rispetto “ai valori” dell’Occidente ma che in realtà sta provocando onde telluriche assai più lunghe, che raggiungono ormai anche l’Asia orientale. Ora il grande timore di Pechino è che dalle zone dove l’Isis combatte per il dominio territoriale possano rientrare centinaia di militanti partiti da alcune regioni cinesi, determinati a concretizzare in patria la loro “jihad”.

Ieri Zhang Chunxian, il governatore della provincia dello Xinjiang (il Turkestan orientale dove vive la consistente minoranza islamica uigura, oggetto di una lenta ma inesorabile assimilazione) ha annunciato che sono stati effettuati alcuni arresti di “foreign fighters” con passaporto cinese di ritorno dalla Siria, prima che potessero compiere attentati nel territorio della Repubblica popolare. Zhang non ha precisato il numero degli arresti, ma di certo si sa che i cinesi nelle fila dell’Is non sono pochi e sono in costante crescita.
A dicembre del 2014 il Global Times, il portale ufficiale di notizie in lingua inglese di Pechino, ha scritto – basandosi su diverse fonti tra le quali ufficiali delle milizie curde – che i cinesi inquadrati nelle fila del network jihadista sarebbero almeno 300, e che il mese scorso tre di loro, arrivati in Siria per arruolarsi nelle forze militari del Califfato sono stati giustiziati dopo aver cercato di fuggire. Secondo altre fonti, in Pakistan sarebbero circa un migliaio i cinesi che si starebbero addestrando in vista di un loro schieramento in Iraq e in Siria. Molti jihadisti cinesi riescono a raggiungere il Medio Oriente passando dalla Cambogia e poi dall’Indonesia grazie alla copertura dell’intelligence turca. Ma anche la Malaysia ha recentemente rivelato che 300 cinesi sono transitati attraverso il proprio territorio e alcuni uiguri sono stati uccisi mentre cercavano di penetrare illegalmente in Vietnam. Secondo il South China Morning Post, circa 800 cinesi sono stati fermati mentre cercavano di passare attraverso il Vietnam e molti di questi erano diretti a combattere per conto del Califfato.
L’estremismo fondamentalista attecchisce sempre più nelle regioni occidentali della Cina, in particolare all’interno della minoranza musulmana uigura che vive nella Provincia autonoma dello Xinjiang. La consistente minoranza musulmana, da sessant’anni alle prese con l’arrivo di un numero sempre maggiore di cittadini di etnia Han, non ha vissuto bene le trasformazioni religiose, linguistiche e culturali degli ultimi decenni. I militanti dell’Etim (Esercito di liberazione del Turkestan orientale) si sono resi protagonisti, recentemente di una serie di attentati come quello alla piazza Tiananmen di Pechino, in cui sono morte cinque persone, e quello alla stazione ferroviaria di Kunming, con 29 morti.
Pechino è consapevole del pericolo che correrebbe nel sottovalutare il fenomeno dell’estremismo radicale islamico e già a settembre dell’anno scorso, nel corso del summit dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai che si é tenuto in Tagikistan, il presidente cinese Xi Jinping ha sottolineato che è “necessario fare sforzi concertati per reprimere le ‘tre forze del male’ del terrorismo, dell’estremismo e del separatismo”. Il conflitto nei territori abitati dagli uiguri sta assumendo forme assai cruente. Secondo il gruppo uiguro Uyghur Human Rights Project – le cui affermazioni, evidentemente, vanno prese con le molle – nel solo 2014, in Xinjiang sono state uccise tra le 450 e le 478 persone, quasi tutti esponenti della minoranza musulmana, tra i quali una sessantina di presunti militanti fondamentalisti abbattuti a luglio dalle forze di sicurezza nel sud della provincia autonoma.
Il Congresso nazionale del popolo – il Parlamento – che è riunito a Pechino per la sua sessione annuale di lavori, si troverà ad approvare anche una normativa anti-terrorismo che allarga le definizioni di “terrorismo” ed “estremismo” lasciando ampi margini al contrasto dell’integralismo islamista ed anche ad eventuali abusi, accusano le associazioni per i diritti umani. Se è innegabile che spesso il contrasto nei confronti del fenomeno jihadista è attuato nello Xinjiang con mano dura e modalità spesso indiscriminate, è anche vero che da anni ormai tanto i network fondamentalisti quanto le cancellerie di alcune potenze straniere – in particolare gli Stati Uniti e la Turchia – soffiano sul fuoco della radicalizzazione della minoranza uigura fornendo supporto di vario tipo agli estremisti.
Il peggiore incubo della leadership cinese non è tanto che i “suoi” estremisti vadano a combattere in Siria o in Iraq, ma che al loro ritorno in Cina importino la jihad nelle forme adottate in Medio Oriente, con sanguinosi attentati e la costruzione di organizzazioni combattenti con un’ampia base di massa. Recentemente Zhang Xinfeng, direttore dell’agenzia antiterrorismo regionale dello Xinjiang, ha lanciato l’allarme: “Questa gente ha iniziato a tornare in patria, e questo costituisce un grande pericolo alla sicurezza regionale”.
D’altronde, parlando a luglio dello scorso anno a Mosul (Iraq), il leader dell’Isis Abu Bakr al Baghdadi non s’era dimenticato di Pechino, denunciando che i “diritti dei musulmani” sono calpestati in Cina e ricordando ai jihadisti che i “fratelli” sotto il giogo della Repubblica popolare “stanno aspettando che li salviate e stanno anticipando le vostre brigate”.

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