Ancora un passo indietro da parte del governo ellenico, dopo la scarsa determinazione mostrata di fronte ai rinnovati diktat dell’Unione Europea che ha dimostrato di considerare un dettaglio insignificante il voto greco del 25 gennaio scorso.
Negli ultimi giorni da Atene, insieme a sacrosante critiche nei confronti della dittatura esercitata dalla Troika, dalla Bce e dal governo tedesco che non si smuovono di un millimetro di fronte alle richieste di un governo che ha appena ricevuto una larga investitura popolare per bloccare le politiche rigoriste fin qui imposte alla Grecia, sono arrivati anche due segnali estremamente negativi. Che aumentano l’inquietudine all’interno di Syriza e dei più vasti e trasversali ambienti della sinistra popolare ellenica che avevano sperato in un conflitto più generalizzato nei confronti dell’Eurogruppo da parte di Tsipras e Varoufakis.
E’ di quest’ultimo una dichiarazione che ha scatenato un vero e proprio putiferio all’interno del suo partito. Il Ministro delle Finanze di Atene ha infatti detto venerdì: “Siamo pronti a rimandare l’attuazione di alcuni impegni elettorali, se questo è necessario per dare fiducia ai nostri partner”. Un’affermazione che lascia presagire un nuovo passo indietro da parte del governo Syriza-Anel nella speranza che una certa cedevolezza convinca i ‘creditori internazionali’ a concedere nuovi prestiti alla Grecia a condizioni meno dure di quelle che Germania e soci continuano a chiedere ad Atene. Una riedizione di quanto già accaduto a febbraio, quando contravvenendo alle promesse fatte in campagna elettorale Tsipras e i suoi ministri avevano accettato nuovamente di trattare con la Troika – anche se sotto la nuova dizione di ‘istituzioni’ – e di accettare un memorandum di misure in cambio della concessione di una tranche di cosiddetti aiuti di circa 7 miliardi di euro. Con il risultato che il governo di Atene aveva già rinunciato ad alcuni punti fondamentali del proprio programma per vedersi poi bocciare dall’Eurogruppo una lista di riforme definita dalla controparte troppo risicata e quindi insufficiente. E di fatto il negoziato durante il quale il governo ellenico aveva già rinculato è stato riportato alla casella d’inizio dalle istituzioni politiche e finanziarie dell’Ue, dopo un ulteriore incancrenirsi di una situazione economica greca quanto mai preoccupante e dopo aver ottenuto un aumento delle divisioni interne al partito vincitore delle elezioni di fine gennaio. E adesso la nuova dichiarazione di Varoufakis lascia intendere quanto il suo governo non abbia nessuna intenzione di prepararsi ad un inevitabile scontro frontale con la gabbia rappresentata dall’Unione Europea, che ora potrebbe contare sulla legittimità sancita dalla vittoria elettorale e da un radicamento popolare che potrebbe presto affievolirsi, insieme alla credibilità di Syriza, di fronte ai continui cedimenti sostanziali, oltre che ideologici, alle bordate dell’avversario.
Dall’assise degli industriali italiani di Cernobbio Varoufakis ha chiarito: “Siamo in grado di completare la revisione dell’accordo del 20 febbraio … Abbiamo un impegno, tutti noi, a raggiungere un accordo entro il 20 aprile». E poi ancora: il nostro obiettivo “sarà quello di giungere ad un accordo sulle riforme e di garantire per la Grecia la liquidità necessaria in base a ciò che propongono i nostri partner”.
Il Ministro delle Finanze di Atene ha manifestato per l’ennesima volta una debolezza ormai evidente della strategia del governo ellenico, quella di puntare ad un accordo a qualsiasi costo. A questo punto è ovvio che se la controparte non si smuove, per ottenere un accordo dovrà essere l’esecutivo Tsipras a spostarsi sempre più sulle posizioni della Troika, con il risultato di affogare le sue promesse in nome della volontà di ‘non rompere’ con l’Ue.
Una debolezza confermata da altre dichiarazioni di Varoufakis, quando il ministro ha informato i giornalisti che la Grecia non è alla ricerca di un eventuale sostegno economico al di fuori dell’Europa, negandosi quindi la fondamentale sponda di Mosca e Pechino e rafforzando il potere di ricatto delle istituzioni europee. Di fatto il governo ellenico continua a negarsi una spregiudicatezza e una determinazione che sono gli unici atteggiamenti – pragmatici, non ideologici – in grado di aprire una eventuale via di fuga rispetto alla trappola che gli uomini neri dell’establishment europeo hanno teso ad una Grecia sempre più all’angolo. Atene continua a proporre – giustamente, dal punto di vista della battaglia mediatica e politica – delle riforme dell’Unione Europea sul fronte economico e politico la cui possibilità di realizzazione, vista la natura imperialista di questo polo, è praticamente nulla. Lasciar credere al popolo greco che oggi sia possibile democratizzare o equilibrare in senso solidaristico una istituzione irriformabile vuol dire disarmare e smobilitare quei settori della popolazione ellenica da anni sulle barricate e disponibili a supportare con la lotta, la mobilitazione ed eventuali sacrifici – che ci saranno comunque, che la Grecia resti nell’euro o meno – un programma realmente incisivo e alternativo alla gabbia imposta da Bruxelles e Francoforte. Il doppio swap del debito ellenico proposto da Varoufakis può anche essere una trovata simpatica, ma non sarà sul fronte della finanza creativa che il governo ellenico potrà ottenere risultati nella contesa con l’avversario.
Se Atene non è disponibile – e non si prepara opportunamente – ad adottare le misure necessarie a sostenere lo scontro con l’Ue e ad attutire i colpi della speculazione e del ricatto economico da parte dei mercati finanziari e delle istituzioni europee, non potrà far altro che continuare a rinculare, visto che il cappio si stringe sempre di più.
Basti vedere cosa sta accadendo sul fronte del commissariamento di Atene da parte dell’Unione Europea. Non solo la Troika – una istituzione illegittima espressione dei poteri forti – è rimasta l’interlocutore del governo di Atene che deve sottoporre a questa le sue politiche e rinunciare al suo programma per vedersi riconosciuto un prestito sempre più fondamentale, ma addirittura ai tre storici rappresentanti del Fondo Monetario, della Commissione Europea e della Bce si somma ora quello del cosiddetto Fondo Salva Stati (l’ESM). La squadra di commissari del quartetto, col nuovo nome apparentemente meno detestabile di Brussels Group, andrà ad Atene a fare le pulci con la penna rossa ai programmi del governo Tsipras più o meno come accadeva con Antonis Samaras.
Varoufakis ha ragione da vendere quando denuncia ad esempio che lo statuto della Bce è stato scritto dalla Bundesbank (la Banca Centrale Tedesca), e che queste regole non vietano le ristrutturazioni del debito greco, e che comunque le regole si devono e possono cambiare se non funzionano. Il problema è che se attraverso il negoziato non si raggiunge alcun obiettivo e anzi ci si indebolisce e la controparte appare indisponibile a qualsiasi modifica sostanziale dello scenario si deve avere il coraggio, ci si deve prendere la responsabilità di rompere e adottare un piano B che preveda anche scelte unilaterali e coraggiose. All’interno del quadro definito dai meccanismi coercitivi imposti dall’Unione Europea – la gabbia – non c’è spazio per cambiamenti sostanziali e neanche per quelle riforme di buon senso – già assai più moderate rispetto a quelle prefigurate solo fino a due anni fa da Tsipras – che Syriza ha promesso al suo popolo. Anche solo per fare alcune riforme che in Europa nei decenni scorsi fecero partiti socialisti o addirittura di centrodestra, oggi occorrono una serie di strumenti – monetari, finanziari, politici – che non è possibile costruire e ricostruire se non rompendo con l’Unione Europea e l’euro.
Le vicende della Grecia di queste settimane mostrano chiaramente che occorre sottrarsi ai diktat dell’Unione Europea. Ogni mediazione, purtroppo, è un piano inclinato verso ulteriori peggioramenti delle condizioni di vita e di lavoro dei settori popolari non solo della Grecia. Il fallimento di Syriza in Grecia potrebbe avere effetti nefasti su tutti i movimenti che all’interno dei Pigs auspicano una alternativa ad una gestione delle crisi che ha distrutto le economie dei paesi della sponda nord del Mediterraneo e che ha aumentato le diseguaglianze rispetto al nucleo dominante dell’Europa.
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