Abbiamo scritto più volte su questo giornale quanto gli Stati Uniti, superpotenza declinante, siano ormai entrati in confusione, con continui cambiamenti di opinione e strategia su molti degli scenari mondiali sui quali ha dominato per decenni e nei quali deve fare ora i conti con una serie sempre più numerosa di ex alleati ormai competitori.
L’ennesima dimostrazione di una confusione che non può essere attribuita alla sola amministrazione Obama ma agli interessi strategici del paese che il premio Nobel per la Pace governa è quanto sta avvenendo sulla Siria.
Neanche due anni fa, dopo aver contribuito alla destabilizzazione di Damasco attraverso il blocco economico, le sanzioni, il sostegno indiscriminato alle opposizioni liberali e islamiste – comprese quelle che poi hanno dato vita allo Stato Islamico – che scatenavano una guerra civile ancora in corso, i bombardieri di Washington erano sulle loro piste di decollo pronti a iniziare i bombardamenti della Siria. Solo l’impegno diplomatico e per la prima volta anche militare nel Mediterraneo orientale non solo della Russia ma anche della Cina costrinse l’amministrazione Obama, con sommo rammarico dei falchi statunitensi ma soprattutto dei francesi, a rinunciare a un intervento militare che all’epoca sembrava solo rimandato.
Nel frattempo gli Stati Uniti hanno invece più volte aggiustato il tiro in Medio Oriente cercando addirittura un accordo con l’Iran – oggi alleato prezioso nel contrasto contro l’Is in Iraq – che fino a poco prima era nel target di un’altra eventuale aggressione militare in lista d’attesa ormai da tempo immemorabile. Il cambiamento di strategia operato da Washington ha irritato non poco Israele, che ha ulteriormente alzato i toni nei confronti dell’amministrazione Bush, e tra i due paesi negli ultimi mesi gli sgarbi reciproci non si contano. Nello stesso periodo anche i contrasti con la Turchia sono notevolmente aumentati, con Washington che insiste nel coinvolgimento di Ankara nel contrasto anche militare contro i jihadisti in Siria e Iraq e l’asse Erdogan-Davutoglu che invece non ne vuole sapere e che in cambio dell’addestramento di alcune migliaia di ribelli ‘moderati’ da inviare in Siria pretende che l’obiettivo della missione sia la rimozione di Bashar Assad. Stessa solfa per quanto riguarda le già indebolite relazioni con le petromonarchie, che dallo stop all’imminente operazione militare contro Damasco hanno accelerato il loro interventismo diretto in tutto il Medio Oriente sostenendo senza remore i gruppi fondamentalisti e mettendosi di traverso rispetto ai piani statunitensi in tutta la regione.
Un equilibrio sempre più precario che ora potrebbe deflagrare dopo le dichiarazioni sulla questione siriana del segretario di Stato John Kerry, che hanno scatenato un putiferio di enormi dimensioni. Kerry ha ripetuto quello che la diplomazia statunitense aveva già provato a dire nei mesi scorsi, cioè che non è possibile risolvere la crisi siriana senza la partecipazione ad eventuali negoziati anche dell’attuale governo. Una virata di 180 gradi rispetto all’imperativo della rimozione di Assad che ha guidato la strategia statunitense fino ad un certo punto, prima che gli Stati Uniti si rendessero conto che una ulteriore destabilizzazione del paese giocherebbe più a favore degli interessi dei suoi competitori nell’area – Polo Islamico e Turchia in primo luogo – che dei suoi. Se il governo attuale dovesse saltare, sarebbero le bande controllate da Ankara, dal Qatar, dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti a prendere possesso di ciò che rimarrebbe di un paese ridotto in frantumi, e non certo le esigue forze politiche e militari ancora fedeli agli interessi di una Washington che appare sempre più lontana. E così Kerry è venuto allo scoperto, affermando che sono necessari dei negoziati e che a questi negoziati deve partecipare anche il governo di Damasco. Un riconoscimento di fatto dell’asse sciita – Iran-Iraq-Siria-Hezbollah – che ha fatto doppiamente infuriare i sempre più insofferenti alleati regionali di Washington, ma anche Londra e Parigi che evidentemente hanno mire proprie in Medio Oriente concorrenziali rispetto a quelle statunitensi. D’altronde è innegabile che a combattere le formazioni fondamentaliste che scorrazzano tra Libano, Siria e Iraq non sono certo i paesi “moderati” sunniti, che anzi in parte ancora sostengono o utilizzano Is e Al Qaeda, ma i curdi – che hanno ritrovato una parziale ma storica unità – gli sciiti e in parte i cristiani. Il fatto che il Vaticano abbia firmato un appello insieme alla Russia e ad altri 62 paesi che chiede al Consiglio dei diritti umani di Ginevra una difesa “più energica” dei cristiani e delle altre minoranze perseguitate dai jihadisti in Medio Oriente non è un segnale che può essere sottovalutato. Come nota Alberto Negri “la presa di posizione vaticana è interessante: pur mantenendo il dialogo con il mondo sunnita, è con gli sciiti che ha segnato i progressi maggiori, come testimonia la visita recente in Vaticano al Papa della vicepresidente iraniana Molaverdi. I cristiani siriani e libanesi sono a stragrande maggioranza con Assad e si sono alleati con gli Hezbollah sciiti libanesi che hanno liberato i villaggi cristiani in Siria dai gruppi sunniti radicali. La Santa Sede sta prendendo atto di una realtà che conosceva perfettamente ma che non poteva esprimere per le pressioni americane e una sorta di opportunismo ecumenico. «Se non ci fossero stati gli Hezbollah a fermarlo, il Califfato sarebbe già alla periferia di Beirut», aveva dichiarato qualche mese fa il Patriarca maronita Bechara Boutros Rai”.
Tornando alle affermazioni di Kerry occorrerà vedere fin dove Washington è in grado di spingersi. Basti ricordare che solo dieci giorni fa uno dei personaggi più altalenanti dell’amministrazione Obama affermava la necessità di continuare la pressione militare contro Assad e prometteva alcune decine di milioni di dollari in aiuti alle opposizioni armate al governo di Damasco. Ma le aperture ad Assad realizzate nel corso di una intervista alla Cbs appaiono comunque uno strappo non indifferente, che Washington sia o meno in grado di condurre in porto. Pochi giorni fa anche alcune delle cosiddette opposizioni siriane, finora irremovibili rispetto alla necessità di far fuori Assad, hanno invece improvvisamente fatto sapere di essere disponibili al dialogo.
Di sicuro le petromonarchie, Israele, la Turchia, la Francia e la Gran Bretagna non renderanno le cose facili all’amministrazione Obama, che oltretutto deve fare i conti con pezzi dell’apparato militare e di sicurezza statunitense che invece continuano a insistere sull’opzione militare contro Damasco.
Mentre l’Unione europea frena sull’ipotesi di considerare il regime di Damasco un interlocutore valido nella lotta contro lo Stato islamico la Francia ha già fatto sapere – tramite il ministro degli Esteri ‘socialista’ Laurent Fabius – di essere contraria a qualsiasi negoziato con il regime siriano: «è chiaro Assad non può essere parte di un quadro» di negoziati per una «soluzione politica» del conflitto siriano.
Anche Londra si è fatta sentire esponendo un punto di vista molto simile. Il ministero degli Esteri britannico ha detto che “non c’è spazio per Assad nel futuro della Siria”.
Anche più dura la Turchia: «Che cosa si vuole negoziare con Assad? Che cosa si vuole negoziare con un regime che ha ucciso oltre 200.000 persone?» ha tuonato il suo ministro degli Esteri Mevlut Cavugsoglu dimenticando che molte di quelle vittime sono state uccise dai ribelli ‘moderati’ e ‘islamisti’ sostenuti da Ankara.
“Non penso che Kerry si riferisse ad Assad in persona” ha invece affermato Federica Mogherini, l’alto rappresentante per la politica estera europea. La crisi siriana, ha aggiunto, si basa su un processo che coinvolga “tutte le parti” e quindi “rappresentanti del regime”, ma non il presidente siriano. Ma che sia Assad in persona o un suo delegato la sostanza politica non cambia: gli Usa, a guida del gruppo degli 11 Paesi – tra cui l’Italia – che finora hanno sostenuto almeno a parole le opposizioni siriane, si allineano a quanto già affermato dall’inviato speciale Onu sulla Siria, Staffan De Mistura, secondo il quale “Assad è parte della soluzione” del problema del dilagare del fondamentalismo sunnita in tutto il Medio Oriente.
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