Qualcuno, qualcuno fra i turchi, lo chiama Ermeni Soykırımı, che sta per “genocidio armeno”. Sono pochi, in genere intellettuali: lo storico Akçam, lo scrittore e premio Nobel Pamuk, oppure oppositori. Sono turchi che rischiano d’essere a loro volta perseguitati come antipatriottici, perché il concetto di genocidio rivolto all’operato della grande Patria è vietato, negato, perseguitato, si rischia una condanna penale da scontare in galera. Così prende corpo il sospetto dell’autoritarismo che già fu di Atatürk, rivisitato da colui che vuole emularlo e superarlo lanciando un kemalismo confessionale: il presidente Erdoğan. Altri, sempre in lingua turca, parlano di Ermeni Techiri cioè deportazione, situazione per giunta documentatissima con testimonianze, orali e scritte, e tante immagini (famose quelle del militare tedesco Armin Theophil Wegner). I censori, prima che negazionisti, aggiungono l’aggettivo sözde: cosiddetto, che introduce il dubbio, l’illazione, una vicenda creata artificiosamente. Almeno per chi vuol difendere gli atti che prima il sultano ottomano Abdul-Hamid (nel triennio 1894-1896) poi nel 1915-16 gli ufficiali noti come i “Giovani turchi” praticarono verso l’etnìa armena che viveva nei territori mediorientali dell’Impero.
Da parte loro gli epigoni del popolo armeno parlano di massacri e Olocausto della propria gente. Una vicenda che ha cent’anni e brucia ancora a carne viva, come tutte le persecuzione della Storia lontana e recente. Le cifre di morti e dispersi variano: duecentomila secondo i turchi, che giustificano tanti decessi con le vicende militari del primo conflitto mondiale. Due milioni e mezzo per la comunità armena che finì sotto l’Urss, dopo essere stata vicina alla Russia zarista che si scontrava con la Turchia ottomana (due imperi in disfacimento) e che ha vissuto la diaspora dei profughi prima di vedersi assegnata una terra nell’area caucasica. Dove altri popoli – i kurdi ne sono un esempio numeroso, come i poco più che centomila abitanti del Nagorno Karabakh – non vedono un pari riconoscimento. Anche fra gli storici che per decenni si sono occupati della materia le cifre del massacro ballano: Toynbee parla di 1.200.000 vittime, McCarthy 600.000. Ma il problema non è la conta. E’ l’approccio che il mondo, dalla grande carneficina della Grande Guerra – benedetta da tante confessioni – al secondo tragico conflitto planetario, ha avuto con quest’evento. Reiterando, poiché dopo gli armeni ci furono ebrei e rom. E via elencando popoli travolti da guerre e pulizie etniche proseguite per tutto il ‘Secolo breve’ fino ai nostri giorni.
Che Imperi d’ogni epoca – e imperialismi e colonialismi – si siano macchiati d’infamie con pogrom e persecuzioni di massa, religiose o ideologiche, non sminuisce né giustifica quello che s’è compiuto e gli oblii essi sì, ripetuti. E da parte degli esecutori, fossero pure popolazioni intere come quelle portate alla morte, violenta oppure indotta, servirebbero meditazione, ammissione di responsabilità, pentimento. Che con la comprensione del male rivolto ad altri possono provare a lenirlo, perché istruisono a non ricadere, salvando da vizi ed errori antichi le generazioni future, più di qualsiasi espiazione. Non sembra questo l’approccio dell’attuale establishment turco, che si sente assediato. Parla di complotto che vuole inserire la Turchia in un ipotetico ‘asse del male’, piani accaduti ad attori politici come Cuba, Iran da parte statunitense e recentemente rientrati (forse più per momentanee tattiche che per convincimenti profondi). La leadership turca, però, coi discorsi di Erdoğan e di Davutoğlu di queste ore che bacchettano il papa di Roma, spinge se stessa all’isolamento, denunciando a metà strada un attacco alla nazione turca e al proprio sistema politico che coinvolge il proprio partito di maggioranza (Akp), da altri turchi considerato partito di regime. Una risposta piccata e stonata, sicuramente inavveduta anche in funzione delle prossime elezioni del 7 giugno, nelle quali al partito di governo è pronosticata la prima flessione della sua storia. Forse il duo di comando cerca voti nella parte più profondamente nazionalista e reazionaria del Paese, che non è mai cambiata.
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