Si resta a Shinland, o magari si torna in forze a Herat con parà e alpini. Parola di Renzi, che nel faccia a faccia con Obama lo impressione per sfrontatezza ed “energia”, così la definisce il presidente statunitense ben felice dello zelo militarista del premier italiano. Il quale oltre a tessere le lodi del modello americano, inseguito con passione e propinato a piene mani sul versante economico-lavorativo del Belpaese, ribadisce la posizione di supporto assoluto alla politica estera Usa. In questo non differenziandosi da predecessori di partito e delle altre sponde politiche nazionali. Poiché in Afghanistan, nonostante i piani dell’exit strategy, la linea del grande ritiro statunitense ha vissuto adattamenti tattici, sia prima che dopo la firma al Bilateral Security Agreement col mantenimento di 13.000 marines e sicuramente anche di qualche migliaio di contractors sparsi attorno alle basi aeree presenti e rafforzate.
A Kabul, Bagram, Kandahar, Camp Marmal, Herat, Mazar-e-Sharif, Jalalabad, Khost la Nato prepara la sua ‘presenza duratura’ incentrata su Falcon e droni per le azioni antiterroristiche nelle aree a rischio, quelle tribali delle Fata e non solo. I “nostri ragazzi”, come amano definirli a Palazzo Chigi, tuttora sul territorio afghano sono 1.500, in gran parte concentrati a Camp Arena, la base di Herat dove la presenza aveva raggiunto anche il doppio, quando nel 2011 i militari italiani nell’Isaf contavano una punta di poco inferiore alle 5.000 unità. E accanto a questi soldati dichiarati ufficialmente, c’erano anche gli uomini fuori lista, quelli coperti da segreto in quanto inseriti nei gruppi d’attacco (la Task Force 45 era una di queste) della ‘guerra sporca’ praticata con rendition e omicidi mirati studiati e preparati dalla Cia. E finiti, in varie occasioni, con stragi di civili, meglio noti come “danni collaterali”.
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riccardo
Renzi è di destra.