Continua senza far notizia la strage di civili nello Yemen che ormai da un mese è sottoposto a massicci bombardamenti dal cielo e dal mare da parte delle forze armate della cosiddetta ‘coalizione sunnita’ guidata dall’Arabia Saudita e dall’Egitto il cui obiettivo è riportare al potere il governo fantoccio di Abd Rabbuh Mansour Hadi – da tempo scappato a Riad – e ricacciare nei loro territori del nord le milizie ribelli guidate dagli Houthi che nei mesi scorsi hanno occupato la capitale e vari territori del centro-sud per impedire alla leadership sunnita di escludere definitivamente dal potere e dall’economia le minoranze sciite.
Dopo le 85 vittime conteggiate nel corso della giornata precedente, ieri nuovi bombardamenti sulla capitale Sana’a hanno fatto di nuovo un elevato numero di morti e feriti. Secondo le autorità almeno 28 persone sono morte e altre 300 sono state ferite a cause delle bombe sganciate dai caccia delle petromonarchie su un deposito di armi e munizioni su una base militare a Sana’a, la cui esplosione ha investito numerosi edifici adiacenti coinvolgendo numerosi civili. Secondo testimoni nei due attacchi aerei consecutivi i caccia hanno distrutto decine di abitazioni e anche una stazione di servizio, dove diversi automobilisti erano in coda, nella zona di Fajj Attan, situata su una collina che sovrasta la capitale yemenita. Fra le vittime dei bombardamenti di ieri figurano anche due dipendenti e una giornalista del canale televisivo al Yamen al Youm i cui locali sono stati fortemente danneggiati dalle bombe. Anche l’ambasciata indonesiana ha subito seri danni e due diplomatici di Giacarta e un cittadino indonesiani sono rimasti lievemente feriti, ha denunciato il ministro degli Esteri indonesiano, Retno Marsudi, condannando “con forza il bombardamento”.
Ormai le voci critiche contro l’offensiva militare denominata ‘Tempesta decisiva’ – che peraltro non sortisce grandi effetti sul campo se non quello di aumentare esponenzialmente il numero di vittime soprattutto civili – si levano da più parti, mentre le diplomazie europee sembrano disinteressarsi a quello che in qualche modo viene considerato un problema regionale di cui è inevitabile che si occupino Arabia Saudita e petromonarchie varie, almeno per ora. Anche se l’offensiva militare contro lo Yemen ha già costretto a fuggire dal paese più di 100 mila persone, molte delle quali si riverseranno sulle coste europee insieme ai profughi provenienti da tanti altri paesi sottoposti alle irresponsabili politiche di intervento e destabilizzazione delle potenze continentali e non.
Invece le organizzazioni umanitarie di fronte alla catastrofe in atto in quello che già era il paese più povero dell’intero Medio Oriente cominciano ad alzare i toni della protesta, rivolgendo all’Arabia Saudita continue richieste di cessate il fuoco e di apertura di corridoi umanitari per soccorrere la popolazione martoriata dai bombardamenti. Sono numerose le organizzazioni sanitarie e di assistenza sanitaria che hanno finora esplicitamente accusata la coalizione araba capitanata da Riad e dal Cairo di impedire l’assistenza alla popolazione, la distribuzione di cibo e medicinali e di prendere a volte esplicitamente di mira gli operatori umanitari. Sabato un magazzino gestito da Oxfam nella provincia di Saadah, roccaforte dei ribelli Houthi, è stato bombardato dai caccia sauditi distruggendo un’enorme quantità di preziosi aiuti umanitari oltre che le apparecchiature di potabilizzazione dell’acqua. E questo nonostante l’ong avesse più volte notificato agli invasori le coordinate del magazzino proprio per evitare che venisse preso di mira nei continui e micidiali attacchi. “Questo è un oltraggio assoluto – ha denunciato Grace Ommer, direttrice di Oxfam in Yemen – soprattutto se si considera che abbiamo condiviso informazioni dettagliate con la coalizione sulle sedi dei nostri uffici e impianti di stoccaggio. Il contenuto del magazzino non aveva alcun valore militare: c’erano solo aiuti umanitari associati al nostro lavoro precedente a Saadah, e cioè portare acqua pulita a migliaia di famiglie”.
Le autorità saudite – come del resto fanno da sempre i vertici militari israeliani – accusano gli Houthi e i ribelli sunniti agli ordini dell’ex presidente Saleh di nascondere armi e munizioni all’interno di edifici civili “costringendo” la coalizione a prenderli di mira.
L’Iran per ora sostiene tiepidamente la ribellione sciita e si limita ad esercitare pressioni internazionali nei confronti del fronte che va dalla Giordania all’Egitto affinché proclamino un immediato cessate il fuoco e avviino trattative per risolvere diplomaticamente il contenzioso tra le diverse parti in causa. Nei giorni scorsi il governo di Teheran ha di nuovo accusato quella che alcuni analisti hanno efficacemente ribattezzato ‘la Nato araba’ di condurre una “provocatoria campagna aerea militare” che prende di mira “indiscriminatamente le zone residenziali, tra cui i campi profughi, uccidendo e ferendo civili innocenti, in particolare donne e bambini”.
Ma la guerra civile con l’intervento di numerose potenze straniere in atto nello Yemen si avvia ad una ulteriore complicazione, con l’arrivo nell’area di una portaerei statunitense – la Roosvelt – scortata dall’incrociatore Normandy e da altre navi appoggio a stelle e strisce. La flotta statunitense si sta già dirigendo verso il golfo di Aden dove andrà a dare man forte alle navi già schierate dall’Egitto e dalle petromonarchie, il cui compito ‘ufficiale’ – benedetto anche dalla recente risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu – è di impedire che ‘potenze straniere’, leggasi l’Iran, possano rifornire i ribelli di armi ed equipaggiamenti militari. Le acque del golfo di Aden però sono assai affollate, e quando la Roosvelt e il Normandy arriveranno in zona troveranno una flotta di sette imbarcazioni di guerra iraniane che Teheran ha inviato vicino alle coste yemenite nell’ambito di una ‘già prevista’ operazione antipirateria. Il portavoce della Casa Bianca, Josh Earnst, ha dichiarato: «Abbiamo prove del fatto che gli iraniani stano fornendo armi e altre forme di sostegno agli Houthi in Yemen», un supporto «che contribuirà solo a maggior violenza in quel Paese». Di qui la decisione di passare dalle parole – il sostegno obbligato di Obama agli attacchi sauditi sul territorio yemenita – ai fatti. In realtà secondo i media di Washington le unità navali già davanti alle coste yemenite sarebbero numerose: dai cacciatorpedinieri Sherman e Churchill ai dragamine Sentry e Dextrous, per non parlare di tre navi per operazioni anfibie, due rifornitori e un cargo d’appoggio. Una flotta da battaglia, assai superiore alle necessità di rafforzare un blocco navale già in atto. Blocco navale in parte inutile, visto che i militari di Washington non possono certo perquisire le navi che battono bandiere di altri paesi, cargo compresi, se i rispettivi comandanti non sono d’accordo. E così in molti hanno visto l’ingente schieramento di forze navali Usa come una risposta al simmetrico schieramento della flotta iraniana, oltre che come un bilanciamento della presenza militare saudita ed egiziana nell’area che Washington a parole sostiene ma in realtà teme come limitazione della propria egemonia.
Domenica scorsa, dopo mesi di interruzioni, i droni teleguidati dall’esercito statunitense hanno di nuovo preso di mira un commando jihadista, probabilmente legato ad Al Qaeda, uccidendo tre fondamentalisti. Un segnale ulteriore della volontà da parte di Washington di non essere estromessa del tutto dallo scenario mediorientale che sempre di più appare come il ‘cortile di casa’ degli sceicchi di Riad e Abu Dhabi.
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