In queste ore lo scenario yemenita – contraddistinto da una guerra civile nella quale sono intervenute le potenze sunnite guidate da Egitto e Arabia Saudita che da un mese bombardano il paese – sembra vivere un relativo allentamento della tensione.
Alcune ore fa, in conseguenza del mutato scenario, l’ex presidente yemenita Ali Abdullah Saleh – destituito nel 2012 dopo più di 30 anni di potere assoluto – ha invitato i suoi alleati ribelli Houthi a ritirarsi, come richiesto dalle Nazioni Unite su pressione dei sauditi, dai territori del centro e del sud del paese conquistati negli ultimi mesi, affinché possano cessare i raid della coalizione e riprendano i negoziati. “Chiedo di accettare e attuare la risoluzione del Consiglio di Sicurezza”, ha scritto Saleh in una dichiarazione letta a suo nome sul canale privato Yemen al-Yawm nella quale l’ex dittatore ha esortato i ribelli al ritiro “da tutte le province, in particolare da Aden”.
Intanto, la portaerei statunitense Theodore Roosevelt e la nave lanciamissili Normandy si sono allontanate dalle acque dello Yemen dopo che un convoglio marittimo iraniano, accusato di trasportare armi destinate alle milizie sciite, giovedì ha invertito la rotta ed ha fatto marcia indietro. Altre sette navi da combattimento statunitensi, tuttavia, rimangono in prossimità del Golfo di Aden. In precedenza. Il segretario di Stato Usa John Kerry aveva lanciato un appello ai ribelli sciiti in Yemen e a coloro che “hanno influenza su di loro” (evidentemente a Teheran) per unirsi al tavolo dei negoziati. “Occorre lavorare in entrambi i sensi”, ha detto Kerry al margine del Consiglio artico in corso in Canada, precisando che l’Arabia Saudita aveva annunciato di passare alla “fase umanitaria” della sua campagna. Gli Stati Uniti avevano già nominato un mediatore e le due parti sembravano pronte a discutere per trovare un luogo per i negoziati, ha detto Kerry. “Ora – ha sottolineato – l’obiettivo è cominciare al più presto le discussioni perché è assolutamente essenziale una soluzione politica”.
Il riferimento di Kerry è al cambiamento del carattere impresso dall’Arabia Saudita alla missione militare condotta da una decina di paesi del fronte sunnita contro la ribellione in Yemen. A metà settimana infatti l’operazione ‘Tempesta decisiva’ è stata dichiarata chiusa da parte della monarchia feudale che però ha annunciato l’avvio della seconda fase dell’intervento, ribattezzata ‘Restaurare la speranza’. Un’operazione dal presunto carattere umanitario che però in realtà prevede una continuazione dei bombardamenti e delle ingerenze militari in territorio yemenita da parte della ‘coalizione’ allo scopo di riportare sul trono il presidente Abd Rabbo Mansour Hadi che dopo esser stato destituito dagli Houthi si è guarda caso rifugiato in Arabia Saudita.
Riad ha giustificato l’avvio della “seconda fase” del proprio intervento con il raggiungimento degli obiettivi militari che si era prefissata, cioè la distruzione degli arsenali di armi pesanti e di missili balistici di cui la ribellione sciita si era impossessata occupando postazioni e basi dell’esercito yemenita. Secondo le petromonarchie un mese di raid e bombardamenti dal mare e dal cielo avrebbero fortemente ridimensionato la forza militare della ribellione impedendo che gli Houthi potessero minacciare “la sicurezza dei paesi circostanti”. Dichiarazioni trionfalistiche da parte di Riad e soci che però sembrano assai di circostanza e che non corrispondono ad una situazione sul campo assai più sfumata.
Da parte sua il movimento Houthi ha negato di aver perso gran parte del proprio arsenale: Habib Zuhair al-Muslim, uno dei leader del gruppo, ha fatto sapere che veicoli blindati, missili e armi sottratti alle forze armate sono custoditi al riparo dai bombardamenti che nonostante la fine di ‘Decisive storm’ continuano. Ancora l’altro ieri il portavoce della ribellione, Mohammed Abdul-Salam, ha rinnovato la richiesta della fine completa degli attacchi da parte saudita e l’avvio di negoziati con la mediazione dell’Onu, anche se il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha votato una oscena mozione di sostegno all’intervento militare straniero e al blocco navale imposto dalle petromonarchie allo Yemen.
Una fonte vicina ai negoziatori ha poi annunciato il rilascio da parte degli Houthi del ministro della Difesa del governo fantoccio, Mahmud al-Subaihi, del generale Faisal Rajab e del fratello del presidente Hadi, il generale Nasser, catturati a fine marzo dalle milizie ribelli che controllano ancora non solo tutto il nord del paese ma anche la capitale Sana’a, l’importante città di Aden col suo porto e varie altre località nel centro sud.
Intanto la situazione umanitaria nel paese è sempre più catastrofica. Potrebbe essere persino più alto di quanto calcolato finora il bilancio delle vittime causate dai bombardamenti delle forze militari straniere, che nelle ultime ore hanno preso di mira di nuovo Aden e Taez. Secondo i dati diffusi dall’Organizzazione mondiale della sanità, tra il 19 marzo e il 20 aprile si sono contati almeno 1.080 morti e oltre 4350 feriti. Tra le vittime ci sarebbero anche 115 bambini secondo i dati resi noti dall’Unicef. “Almeno 115 bambini sono stati uccisi e altri 172 hanno subìto mutilazioni”, ha dichiarato il portavoce dell’agenzia dell’Onu per l’infanzia, Christophe Boulierac, nel corso di una conferenza stampa a Ginevra.
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