Ieri i ribelli sciiti hanno colpito la città saudita di Najran, uccidendo due persone. La guerra arriva in casa della petromonarchia che dopo un mese di raid non riesce a frenare il movimento.
La guerra arriva in casa saudita. Dopo un mese e mezzo di bombardamenti in Yemen, dopo oltre 1.260 morti, migliaia di feriti e almeno 300mila sfollati, i ribelli Houthi – target della coalizione anti-sciita – hanno colpito l’Arabia Saudita.
Ieri i miliziani hanno lanciato missili contro i territori al confine, nella città di Najran, uccidendo almeno due civili e – dicono fonti tribali non confermate – catturando 5 soldati della famiglia Saud. In risposta all’attacco Riyadh ha chiuso tutte le scuole della città e sospeso i voli dall’aeroporto locale. “Quanto successo oggi è parte del caos in le milizie Houthi vivono”, ha detto il generale saudita Ahmed Asiri, aggiungendo che “tutte le opzioni restano aperte”.
E immediata è stata la reazione saudita: questa mattina i jet militari della coalizione hanno bombardato l’aeroporto militare della provincia meridionale di Lahij, la base di al-Anad, occupata dagli Houthi. Nel raid la strada per l’aeroporto è stata distrutta, insieme a numerosi aerei da guerra. Colpito anche il distretto di al-Haradh, nella provincia di Hajjah: un morto e diversi feriti. Vittime si sono registrate anche in altri raid, a Sa’ada, Dhamar, Khormakssar.
Ma, rappresaglie o meno, l’attacco Houthi di ieri porta con sé un messaggio chiaro: l’operazione “Tempesta decisiva”, fortemente voluta da Riyadh e Il Cairo, non sta avendo successo. Il movimento Houthi non solo non arretra, ma avanza, mantenendo il controllo delle zone del paese occupate e arrivando a lambire il territorio saudita, a dimostrazione di una capacità militare consistente (secondo Riyadh frutto del sostegno militare e finanziario dell’Iran). Ad oggi il movimento sciita aveva colpito il confine con l’Arabia Saudita, ma mai una città al suo interno, facendo così traballare la strategia saudita, finora giustificata con la minaccia alla sicurezza regionale.
L’attacco segue all’annuncio di lunedì del ministro degli Esteri saudita, Adel al-Jubeir, secondo il quale il suo paese stava pensando ad uno stop temporaneo dei bombardamenti per garantire la consegna di aiuti umanitari ad una popolazione allo stremo. E ieri durante il meeting del Consiglio per la Cooperazione del Golfo, Riyadh ha messo sul tavolo la proposta di un centro di coordinamento umanitario, insieme all’Onu, per sostenere i civili yemeniti. Ben poco, se i raid proseguono. Le notizie che giungono dallo Yemen sono drammatiche: alle morti, si aggiunge una situazione ormai insostenibile con intere città (a partire dalla capitale ad interim Aden) ridotte alla fame.
Appelli al cessate il fuoco giungono anche dal Palazzo di Vetro, su pressione delle agenzie umanitarie che non riescono a portare aiuti alla popolazione: mancano medicinali, cibo e carburante, necessario a far funzionare gli ospedali e le infrastrutture indispensabili del paese, dalla rete idrica alle telecomunicazioni. Un paese che già prima dell’attacco viveva in miseria: lo Yemen, il paese più povero dell’intero Medio Oriente, importa la stragrande maggioranza dei beni di consumo e dei beni alimentari, schiacciato da tassi di disoccupazione (18% contro il 9%) e aspettative di vita (63 anni contro 70) ben al di sotto della media internazionale.
A schierarsi con vigore contro l’operazione anti-sciita è anche il leader del movimento libanese Hezbollah, Hassan Nasrallah: “Ditemi quale singolo obiettivo è stato raggiunto. L’Arabia Saudita ha ripristinato la cosiddetta legittimità in Yemen? Ha impedito l’espansione dei comitati popolari yemeniti? Ha confiscato le armi a Ansurallh [partito del movimento Houthi, ndr]? È riuscita a far tornare Hadi [il presidente fuggito, ndr] nel paese?”.
Nasrallah si fa portavoce del pensiero iraniano: l’operazione saudita contro lo Yemen è un fallimento. Riyadh non vince, mentre Teheran – vera preda saudita – prosegue nella sua azione dietro le quinte. Il 21 aprile il re saudita aveva annunciato la fine delle operazioni militari e l’avvio di una seconda fase, ribattezzata “Ripristino della Speranza”, nella quale potare avanti gli obiettivi politici del fronte anti-Houthi. Ma lo stop ai raid non è arrivato, così come nessun dialogo tra le parti è stato lanciato.
A tentare la via diplomatica è il nuovo inviato Onu per lo Yemen, Cheikh Ahmed che è volato a Parigi prima di raggiungere Riyadh nei prossimi giorni per tentare di rilanciare un processo di pace mai realmente partito. Sul piatto la posta in gioco è consistente: il controllo di un paese povero ma strategico per la posizione occupata (via di transito dei cargo di greggio che dal Golfo partono per l’Europa) e perché terreno di scontro diretto e indiretto tra i due assi sciita e sunnita.
da Nena News
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa