L’euro sarà pure “irreversibile”, com’è costretto ormai a dire con cadenza mensile Mario Draghi, ma l’Unione Europea non se la passa affatto bene.
Non hanno fatto neppure in tempo a chiudere il dossier greco – e il timore che Atene si costretta a uscire dalla Ue per manifesta impossibilità di rispettarne le “prescrizioni” che l’hanno portata alla fame – che subito si apre un altro capitolo sul fronte Nord. La Gran Bretagna, che pure mantiene la sua amata sterlina e guarda da sempre più verso gli Usa che non ai partner continentali, potrebbe nel giro di un paio d’anni dire addio alla mai molto amata compagnia europea.
David Cameron, fresco di inattesa ma netta riconferma, ha promesso che stavolta il referendum sulla permanenza nell’ Unione si farà davvero. Del resto, pur nella vittoria, deve fare i conti con un paese dove la rappresentanza politica si è è frammentata drasticamente. La Scozia è indipendentista (56 seggi sui 59 disponibili sono un risultato indiscutibile), e gli eurocontrari dell’Ukip, pur avendo conquistato un solo misero eggio, hanno comunque raccolto quasi il 13% dei voti (il “bello” della legge elettorale anglosassone è tutto qui). Segnali fortissimi che consigliano l’ultraopportunista premier conservatore a farsi campione del possibile “Brexit” (Gran Bretagna più exit).
Ma non è una novità. La sua campagna elettorale è stata condotta tutta in polemica con l’Europa. Non sui toni forsennati di Nigel Farage, il destrorso leader dell’Ukip ora dimissionario, ma comunque con una inedita chiarezza. Ora deve necessariamente passare ai fatti, ossia preparare il referendum popolare.
Naturalmente questa è più un’arma di pressione sui partner continentali, per ottenere condizioni ancora più vantaggiose per il suo paese, che non un obiettivo vero. Ma apre un periodo di conflitto con l’Unione Europea, e non sempre l’evoluzione di una trattativa all’arma bianca conduce all’ottenimento del risultato migliore. Anche perché è molto difficile che l’Unione possa reggere le “pretese” inglesi – paese che ha retto meglio alla crisi grazie alla potenza del suo sistema finanziario globalizzato – mentre sta strangolando i “piigs” con riforme strutturali che ne preparano la totale deindustrializzazione.
Una rinegoziazione risciosa, dunque, e sotto la minaccia che la Scozia torni a pretendere una autonomia al limite dell’indipendenza, ma nel segno della difesa del welfare state ormai demolito
Ma cosa pretende Cameron dall’Unione? La lista delle richieste è stata presentata in sette punti, oltre un anno fa, ma tutti i partner l’hanno considerata praticamene inaccettabile, perché aprirebbero la via all’autodistruzione delle regole che vincolano i paesi. Anche a voler prescindere dai singoli punti (regole del commercio, sull’immigrazione, riforme istituzionali, prevalenza di magistratura e polizie nazionali rispetto alla Corte europea dei diritti umani, ecc), il disegno unitario è abbastanza semplice: meno potere a Bruxelles, più autonomia ai singoli stati membri. Ma questo significa interrompere – probabilmente per sempre – il faticoso processo di integrazione. Addirittura, quest’ultimo principio è stato esplicitamente inscritto del settimo punto della lista inglese.
Difficile dunque che il negoziato, che ora dovrà iniziare, possa produrre qualcosa di utile a compattare maggiormente i paesi membri. E già premono le elezioni in Spagna, Portogallo, Irlanda, che – seconod tutte le previsioni – vedranno crescere potentemente le forze politiche che, quantomeno, chiedono una “profonda riforma” dell’Unione. Obiettivo che, come la vicenda greca sta dimostrando, risulta semplicemente impraticabile.
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