L’annunciata campagna di primavera dei talebani prosegue e diffondere una scia di sangue anche sui civili. Dopo gli assalti ai mezzi pubblici dei Tehrek-e Talib ieri a Karachi, nella serata anche il ramo afghano dei turbanti ha sferrato un attacco del terrore. Colpita da un commando una festa nella guesthouse Park Palace di Kabul dove doveva esibirsi la cantante classica Altaf Houssain. Hanno perso la vita in quattordici, fra cui nove stranieri, quattro indiani, un americano e un italiano. Per il nostro connazionale la notizia è confermata dalla Farnesina, è Sandro Abati, un cooperante di 48 anni che aveva iniziato a curare affari di un’azienda d’investimenti, fidanzato con una kazaka rimasta anche lei vittima. In precedenza la Cnn indiana aveva parlato di due italiani morti su un totale di nove stranieri e precisa che non si tratterebbe d’un commando di tre uomini, come inizialmente diffuso, bensì d’un unico attentatore kamikaze. Del resto la rivendicazione giunta da un portavoce dei talebani locali fa anche il nome dell’attentatore “Muhammad Idrees, della provincia di Logar, dotato di armi da fuoco e cintura esplosiva che ha colpito un’importante riunione che vedeva la presenza di occidentali e diversi statunitensi”.
Nella fase di passaggio che dallo scorso gennaio vede le forze armate afghane occuparsi in esclusiva della sicurezza del territorio, compresi gli obiettivi sensibili della capitale, la debolezza di quest’ultime e l’inconsistenza dei piani di servizio messi in atto dal ministero dell’interno risultano palesi. Già quando questi controlli, in prossimità delle ambasciate occidentali nella “città proibita”, erano affidati a militari locali coadiuvati da truppe Nato gli attentati non erano mancati, ora l’insicurezza è ampiamente aumentata. L’amministrazione Ghani, molto attenta all’immagine e alle relazioni diplomatiche col mondo, ratifica la linea dei grandi numeri che negli ultimi due anni ha fatto toccare la cifra record dei 350.000 uomini in divisa, mancando però di sostanza. Deve fare i conti con la volontà americana di lasciare un congruo numero di proprie truppe (alle previste 13.000 unità se ne potranno aggiungere 6-8.000) ma non a occuparsi di ordine pubblico e vigilanza che ricadono su reparti locali impreparati e scarsamente motivati e su ufficiali ancor meno convinti e in vari casi corrotti.
Del resto lo stesso presidente oscilla fra la lotta all’insorgenza e la ricerca di dialogo con alcuni leader della famiglia talebana, in uno spregiudicato dribbling di ammiccamento e contrasto. I talebani, dal canto loro, sembrano voler sfruttare su ogni terreno l’inconsistenza dell’attuale establishment che strizza l’occhio e coinvolge taluni antichi signori della guerra (Dostum) e mantiene buoni rapporti con altri (Sayyaf, Hekmatyar) mascherando il sostanziale spirito conservatore con un volto modernista, che gli Stati Uniti hanno sempre suggerito come look accattivante per i gusti occidentali. Nello scacchiere del grande Medio Oriente, agitato da crisi ribadite e nuovi fuochi, la centralità afghana e l’interesse per il business del suo sottosuolo coinvolge altre potenze in competizione affaristica col blocco occidentale. Per questo le 34 province dell’Hindu Kush restano in permanente allarme. La partita coi Taliban che si diceva chiusa nel 2001, in realtà non è mai terminata, la loro rigenerazione è correlata all’occupazione straniera, oltre che ai nuovi disegni del fondamentalismo mondiale.
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