Menu

Palestina all’Onu: Israele tra isteria e sindrome da accerchiamento

Il riconoscimento da parte dell’Assemblea dell’Onu della Palestina era scontato. Ma alla fine ieri il numero di paesi che hanno votato contro è stato di parecchio inferiore a quanto ci si potesse aspettare fino a qualche ora prima.

La repentina giravolta da parte del rappresentante del governo italiano, che nel pomeriggio di ieri aveva annunciato il suo assenso alla richiesta da parte della Palestina, è da questo punto di vista assai significativo, visto che l’Italia intrattiene da decenni ottime relazioni politiche, commerciali, industriali e militari con il cosiddetto Stato ebraico. E che proprio recentemente il ministro Terzi e lo stesso premier Monti ha riconfermato l’incrollabile amicizia tra Roma e Israele. Non a caso ieri l’ambasciatore israeliano a Roma si è detto assai ‘deluso’ della scelta del governo italiano.

Ma anche il mutamento di opinione dell’ultim’ora da parte del governo tedesco, passato in poche ore dal no all’astensione, ha pesato molto sul morale israeliano.

Alla fine quindi il fronte del ‘no’ non solo si è dimostrato assai minoritario numericamente, ma anche limitato agli Stati Uniti, alla stessa Israele e a pochissimi altri paesi satellite: Canada, Micronesia, Repubblica Ceca, Isole Marshall, Nauru, Palau e Panama.

Un risultato, indubbiamente, dell’ondata di indignazione scatenato in tutto il pianeta dall’ennesima strage di civili a Gsaza, così come era successo pochi anni fa per Piombo Fuso, anche all’interno delle opinioni pubbliche dei paesi che sostengono Israele a spada tratta.

Ma a pesare sul nuovo scenario alle Nazioni Unite è sicuramente un cambiamento di atteggiamento da parte dell’amministrazione statunitense. Che ha ovviamente confermato un ‘no’ scontato, sostenuto però questa volta con una verve e una determinazione assai inferiore al passato. Sulle relazioni con Israele da parte dell’amministrazione Obama pesano anni di contrasti forti sulla strategia da adottare in Medio Oriente. Tel Aviv spinge – con le buone e con le cattive – per obbligare Washington a imbarcarsi in una aggressione militare contro l’Iran che le classi dirigenti statunitensi, almeno per ora, non condividono. E soprattutto ora Washington è stata costretta, per mantenere la propria egemonia sul Nord Africa e sul Vicino Oriente, a rimodulare la propria strategia, abbandonando nell’ultimo anno i vecchi regime corrotti e dittatoriali per sostenere un nuovo ruolo egemonico delle borghesie islamiche e liberali in economia. E lo dimostra il ruolo assegnato dall’amministrazione Obama all’egiziano Morsi nel raggiungimento di un cessate il fuoco tra la resistenza palestinese e Israele dopo 8 giorni di bombardamenti sulla Striscia di Gaza. Suonato come una sconfitta a parte delle classi dirigenti e a buona parte di un’opinione pubblica israeliana sempre più guerrafondaia ma al tempo stesso sempre più isolata a livello internazionale. Obama ovviamente non vuole e non può abbandonare Tel Aviv a sé stessa, ma non può neanche permettere che gli interessi israeliani mettano in discussione il difficilissimo equilibrio raggiunto tra gli interessi americani e quelli dei Fratelli Musulmani in Medio Oriente.

L’isolamento di Israele, da questo punto di vista, aumenta a vista d’occhio e le sconfitte su Gaza prima e all’Onu poi potrebbero accelerare una crisi di prospettive dello ‘stato ebraico’ che sembra senza precedenti.

Basta leggere le reazioni isteriche dei rappresentanti di Israele e delle lobby sioniste in giro per il mondo, in queste ore, per accorgersene. Da chi accusa Mario Monti di appoggiare Hamas (!) a chi, come Dimitri Buffa, accusa la comunità internazionale, nella fattispecie 52 personalità di tutto il mondo, di voler “boicottare militarmente Israele, cioè impedire agli stati di fornire allo stato ebraico le armi per difendersi dall’ostilità dei Paesi arabi e dall’Iran, oltre che dal terrorismo di Hamas”. Il che secondo il ‘giornalista’ de l’Opinione, il più filoisraeliano in giro per l’Italia (Fiamma Nirenstein vive in Israele) “equivale a decretare una nuova Shoà nell’arco di tre o quattro anni”.

“Ora si ricomincia: Israele contro il resto del mondo” conclude Buffa che rivela una sindrome da accerchiamento che in parte coglie elementi di realtà – il crescente isolamento israeliano – ma in parte rivela anche una percezione vittimistica dei sostenitori di Israele che negli ultimi anni sembra aver provocato più danni che risultati positivi per la propaganda sionista.

Sul sito di propaganda sionista italiano ‘Informazione corretta’ (sic!) si possono leggere invettive contro la crescente e negativa influenza delle Ong sui governi di tutto il mondo oppure allarmi sul pericolo rappresentato dall’Iran che sarebbe sottovalutato dagli stessi amici di Israele. E non manca il dileggio per coloro che credono veramente che Arafat sia stato avvelenato e ucciso da agenti israeliani.

Ma ancora più istruttivo è leggere i commenti della stampa israeliana. Concentrata a sminuire l’importanza del riconoscimento da parte dell’Onu della Palestina come ‘stato non membro’ nei territori di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est occupati da Israele nel 1967.

“Tutto quello che otterrà Abu Mazen con questa risoluzione sarà di elevare il proprio profilo in un momento in cui si era ritrovato impopolare e irrilevante, e di accrescere aspettative irrealistiche fra i palestinesi. Darà loro la sensazione di non dover fare concessioni, di non dover scendere a patti con l’esistenza di uno stato ebraico, di non dover fermare l’odio contro gli ebrei che è endemico nella loro politica e cultura popolare”. Alan Edelstein, del Times of Israel, non è proprio sfiorato dal sospetto che se a occupare le terre palestinesi fossero i cinesi o gli svedesi i legittimi abitanti di quei territori odierebbero questi ultimi invece degli ebrei?

“La manovra all’Onu di riconoscere lo Stato di Palestina nel territorio finito sotto controllo israeliano (!) dopo la guerra dei sei giorni del 1967 rientra nella spudorata campagna volta a ottenere da parte delle Nazioni Unite la delegittimazione ufficiale del controllo di Israele non solo su luoghi come Ma’aleh Adumim – una città di 40.000 abitanti a 7 km di Gerusalemme, che in tutte le ipotesi di accordo dovrebbe rimanere israeliana – ma anche di luoghi che echeggiano di significati religiosi, storici e culturali per il popolo ebraico come il quartiere ebraico della Città Vecchia di Gerusalemme e il Muro Occidentale (“del pianto”). La manovra dell’Olp all’Onu è sbagliata e irragionevole, e non farà che andare ad aggiungersi alla lunga serie degli errori storici della dirigenza palestinese che risalgono perlomeno al 29 novembre 1947, quando i palestinesi non colsero la loro concreta chance di ottenere nazionalità e auto-determinazione. Come oggi” scrive invece il Jerusalem Post. Che rimuove accuratamente l’uso dei termini ‘occupazione’ e ‘colonia’, sostituiti invece da ‘territorio finito sotto il controllo israeliano’ e ‘città’ in un utilizzo autoassolutorio della lingua che la dice lunga sui fantasmi di un paese in guerra con la propria coscienza, prima ancora che contro il resto del mondo.

Ma le autocensure linguistiche non possono cambiare una realtà che la stessa stampa israeliana non nasconde. Haaretz  parla di “sconfitta umiliante” e di “campanello d’allarme”: “Germania, Gran Bretagna, Italia e altri Paesi amici hanno mandato un messaggio a Israele con il loro voto, la pazienza per l’occupazione si sta esaurendo”. Anche il più destrorso Yediot Ahronot ha definito il voto del Palazzo di Vetro “una debacle politica”. “Il premier Netanyahu”, ha scritto, “non ha saputo valutare l’entità della rabbia che c’é nel mondo verso Israele”.

Ci sono tutti gli elementi affinché l’opinione pubblica israeliana faccia un passo indietro rispetto ai propri sogni di dominio nella regione. Ma pare proprio che non sarà così. Moshe Feiglin, uno dei candidati emergenti del Likud alla prossime elezioni politiche ed esponente del movimento dei coloni, propone oggi l’estensione immediata della sovranità israeliana su tutta la Cisgiordania, l’assunzione del controllo esclusivo di Israele sulla Spianata della Moschee, e la fuoriuscita di Israele dall’Onu. “Se la Svizzera se l’é cavata bene senza essere all’Onu, possiamo farcela anche noi” promette l’astro nascente del Likud.
Sorvolando sul fatto che la Svizzera non occupa nessun territorio non suo e non è circondata da popolazioni giustamente ostili.

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

1 Commento


  • jefferson

    secondo me è meglio non fare guerra ma la pace

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *