La Nakba è una giornata triste e piena di nostalgia, di amari ricordi di case distrutte o occupate da altri, di terra usurpata con la forza delle armi, di morti caduti in difesa di tutto questo. Da ben 67 anni ci sono Palestinesi che vivono nei campi profughi, senza diritti, o sono nella diaspora dove hanno portato la loro Palestina nel DNA e nel cuore.
Questi ricordi e immagini che si ripetono da 67 anni, anche in situazioni e fasi storiche diverse, riportano all’attenzione e alla coscienza della comunità internazionale la questione del diritto al ritorno, sancito nella risoluzione 194 dell’ONU: ogni anno, ininterrottamente, l’Assemblea Generale dell’ONU lo riconferma, e il governo di turno di Israele gira la testa dall’altra parte.
Quest’anno la Nakba ha un altro sapore, un po’ diverso; non si sa se è il destino o una strana sequenza di numeri, ma sono 67 anni dalla Nakba del ’48 e sono 48 anni dalla guerra dei sei giorni del ’67. Sarà!
La giornata della Nakba di quest’anno ha portato una speranza in più al popolo palestinese: un importantissimo riconoscimento dello Stato di Palestina da parte della Santa Sede. E’ un atto coraggioso di portata internazionale, un accordo, il primo tra i due Stati, che potrebbe e dovrebbe diventare un modello di convivenza fra le religioni in Medio Oriente, in particolare per quei paesi a maggioranza musulmana dove c’è una minoranza cristiana.
Infatti, l’accordo prevede la libertà religiosa e di movimento, oltre ad agevolazioni fiscali e una convivenza civile tra cittadini che hanno gli stessi diritti e doveri.
L’importanza di questo accordo è anche nel riconoscimento dello Stato di Palestina sui territori occupati dall’esercito israeliano nella guerra del 1967. Israele non riconosce questi territori come “occupati” ma come “contesi”, ed inoltre ha annesso Gerusalemme araba allo Stato israeliano, già dal 1967, mentre la legalità internazionale la considera sottoposta a statuto speciale.
Per Israele la presa di posizione della Santa Sede avviene nel momento in cui l’estrema destra israeliana, capeggiata per la quarta volta da Netanyahu, forma il suo governo dopo le elezioni di marzo scorso, senza un programma e senza alcuna intenzione di trovare una soluzione al conflitto con i Palestinesi.
Anzi, le dichiarazioni di alcuni ministri – l’incitamento di Neftali Bennet a uccidere i Palestinesi o quello del ministro della giustizia Ayelet Shaked che invoca il genocidio e la pulizia etnica – dimostrano che questo è un governo che non pensa alla pace, bensì a continuare la guerra e la pulizia etnica dei Palestinesi. Infine, per dirla con lo scrittore israeliano Etgar Kerlet (Repubblica 18/5/2015), “le ultime elezioni hanno portato al potere una coalizione di destra, Netanyahu ha vinto proprio indicando la sua indisponibilità a ogni compromesso. Il paese è cosi diviso che sembra popolato da due tribù rivali, con una spaccatura enorme fra gli uni, disponibili a fare concessioni, e gli altri, che pensano di continuare a usare la forza per controllare tutto”.
L’attivismo della diplomazia vaticana mira a una forzatura, incoraggiata dall’indebolimento della politica estera statunitense. L’auspicio è che questo riconoscimento, insieme al tentativo francese di presentare un piano di pace che impegni il Consiglio di sicurezza dell’ONU a riconoscere lo Stato di Palestina sui territori occupati dal ’67, e con un calendario ben definito, ponga fine a questa lunga, interminabile occupazione militare israeliana.
In attesa che questi piani siano realizzati, i Palestinesi continueranno la loro battaglia a tutti i livelli (resistenza popolare, politica e diplomatica), su tutti i campi e con tutti i mezzi che hanno in mano. Fino alla cacciata dell’ultimo soldato occupante israeliano.
* giornalista palestinese
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