“Ogni riga che possiamo pubblicare oggi è una vittoria strappata alle potenze delle tenebre – per quanto sia incerto il futuro a cui le consegniamo”
Lettera di Walter Benjamin a G. Scholem, gennaio 19401
Rileggere la storia del XX secolo attraverso il prisma dell’esilio è una scelta obbligata e il romanzo della Seghers è una fonte di comprensione primaria.
Lo è per poter comprendere un presente in cui la condizione di colui che lascia la propria terra d’origine, o meglio è costretto a fuggire, costituisce un tratto essenziale del divenire migrante di una parte sempre più cospicua dell’umanità, così come lo fu più di sessanta anni fa per i popoli del Vecchio Continente durante la Seconda Guerra Mondiale.
Nel 2015 il numero dei profughi ha avuto un aumento vertiginoso superando i 65 milioni, secondo quanto riportano i dati dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), più della metà sono bambini: oggi, una persona su 113 sul nostro pianeta è un profugo.
Non è peregrino parlare – come fa tra l’altro l’attuale Pontefice – di una Terza Guerra Mondiale in corso, di cui i flussi dei “dannati della terra” che premono ai confini dell’Occidente sono la conseguenza più “mediatizzata” – insieme al terrorismo “jihadista” – dei conflitti in atto.
Come ha affermato Filippo Grandi, alto commissario Onu per i rifugiati: «i rifugiati e i migranti che attraversano il Mediterraneo e arrivano sulle spiagge d’Europa portano il messaggio che se non risolviamo i problemi, saranno i problemi a venire da te»
Certamente coloro che giungono nel Vecchio Continente sono solo una piccola porzione dei flussi di profughi causati dai vari teatri bellici che dal centro Africa si sviluppano fino all’Asia, in un “arco di instabilità” che sta trasformando una parte rilevante del mondo in una gigantesca trincea senza soluzione di continuità.
Spesso l’incapacità di saper leggere i fenomeni “a monte” cogliendone solo gli effetti “a valle” ci fa ignorare il fatto che sono proprio i paesi poveri (con una percentuale del 97%) ad ospitare i 65 milioni di profughi esistenti, e che sono di fatto i paesi del “Sud” del mondo a farsi carico dei conflitti scatenati dai paesi del “Nord”, che risultano poi piuttosto recalcitranti ad assumersi fino in fondo la responsabilità della propria catastrofica politica estera.
E dopo i palestinesi, sono i siriani – che per un quarto ormai vivono fuori dai confini del proprio stato d’origine – a costituire in proporzione la parte più rilevante di questa umanità in transito.
Nel 2015 infatti a causa della sanguinosa guerra civile siriana, il numero dei profughi ha superato i 4 milioni, dato di per sé rilevante, ma a cui se si somma il numero degli sfollati interni, si arriva alla cifra catastrofica di 11 milioni.
Questi sfollati sono “ospitati” per la maggior parte dai paesi confinanti come Turchia, Iraq, Libano e Giordania mentre solo una parte giunge in Europa attraverso la cosiddetta “rotta balcanica” o l’attraversamento del Mediterraneo.
Un dato che le narrazioni sull’“invasione dei nuovi barbari” sembrano rimuovere.
Così sono spesso i conflitti “dimenticati” – come quello somalo entrato nel suo terzo decennio e che ha provocato più di un milione di profughi – o volutamente “ignorati” – come quello in Yemen che ha causato in proporzione il maggior numero di sfollati interni: circa due milioni e mezzo, poco meno di un decimo della popolazione – a soffrire in maniera più acuta per questo dramma.
Si tende poi a dimenticare che la prima guerra civile europea del XXI secolo, quella ucraina, oltre a mietere più di 10.000 vittime e il doppio di feriti, ha costretto circa un milione di persone a fuggire dal conflitto, di cui circa 600.000 hanno trovato ospitalità in Russia scegliendo di divenire cittadini della Federazione.
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La rimozione di alcuni elementi cardine del nostro presente procede di pari passo con la cancellazione della memoria storica di alcuni aspetti rilevanti del nostro passato in una manovra a tenaglia che stritola le coscienze che rimangono in bilico tra la “cecità per distrazione” e l’oblio.
Il frutto amaro del presente è un revisionismo storico che cerca di cancellare le tracce indelebili del “Secolo Breve” quando è chiaro che le ombre del passato si stanno proiettando sul presente nella loro dimensione fortemente distopica.
I media mainstream promuovono una colpevole ignoranza sul debito storico che gli abitanti europei hanno contratto nel corso della Seconda Guerra Mondiale nei confronti di coloro, come i siriani, li hanno ospitati come profughi tra l’altro proprio ad Aleppo, città simbolo del conflitto siriano in corso2.
Ma questa non è che la punta dell’iceberg di un processo più ampio di rimozione collettiva.
Sui corpi dei migranti si sperimentano così quelle strategie di governance che diventano poi aspetti strutturali delle tecniche di dominio estese a tutto il corpo sociale, l’anticipazione di una immagine del futuro che attinge a piene mani dalle pagine del passato più oscuro dell’Europa: possiamo chiamarlo con un eufemismo stato d’eccezione permanente.
Per parafrasare le parole di Bertolt Brecht: il ventre che ha generato la bestia immonda è ancora fecondo.
Forse il cuore nero dell’Europa, anche sotto le sue mentite spoglie democratiche, non ha mai smesso di battere e la costruzione dell’Unione Europea gli ha dato maggiore vigore.
Si alzano barriere di filo spinato, e a jungles si alternano campi di concentramento battezzati in altro modo con tutte le possibilità che la “neo-lingua” orweliana offre al lessico del potere, si deportano esseri umani verso un futuro incerto o li si fa attendere in un limbo che spesso è l’anticamera dell’inferno del ritorno, li si sfrutta in condizioni semi-schiavili o li si riduce a mera merce sessuale.
Per capire “l’orizzonte d’attesa” di questa umanità che attraversa i confini geo-politici per disegnare le mappe della propria esistenza occorre interrogare la storia europea quando la guerra, l’esilio, l’universo concentrazionario, la discriminazione fatta sistema, l’assurdità della burocrazia e la gabbia del Diritto, nonché le prospettive di fuga obbligate verso un altrove erano vissuti quotidianamente sulla pelle dalle famiglie dei futuri cittadini europei.
Si rende necessario un confronto allo specchio con noi stessi, la nostra storia, per inaugurare una archeologia del nostro presente.
Dobbiamo farlo salendo sulle spalle dei giganti, cioè appoggiandoci a chi nella mezzanotte del secolo non abdicò al proprio impegno politico-intellettuale anche di fronte alla situazione di estrema difficoltà costituita dall’esilio, animato da quello spirito che uno dei più grandi musicisti del Novecento così sintetizzo: «non credevamo solo in noi stessi, credevamo nella causa. Per noi non avevamo niente, tranne la fiducia nello sviluppo dei tempi»3.
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Il libro di Anna Seghers è uno strumento indispensabile.
Ciò che è descritto nel romanzo sembra essere talvolta più una narrazione del presente che la descrizione di un passato da cui ci separa ben più di mezzo secolo.
Questo ponte storico fa la stessa impressione della visione della recente opera della photo editor Sanna Dullaway a cui il “Time” ha commissionato la resa a colori di alcune foto-simbolo dei 60 milioni di sfollati europei durante la Seconda Guerra mondiale.
La scrittura della Seghers riduce la distanza tra passato e presente forse in maniera ancora più vivida dell’arte digitale della Dullaway, e il suo esempio intellettuale è un bussola per chi oggi naviga a vista in un mare in tempesta.
Transito è il secondo romanzo d’esilio dell’autrice dopo “La Settima Croce”, e verrà pubblicato in inglese e spagnolo nel 1944 e solo nel 1948 nell’originale tedesco, mentre – nonostante sia la Francia ed in particolare Marsiglia a fare da sfondo al racconto – sarà disponibile in francese solo a metà degli anni ’80 e di lì a poco conoscerà una trasposizione filmica per opera del regista marsigliese René Alliot.
Contemporaneo a Casablanca, il capolavoro hollywoodiano di Michael Curtiz, Transito ha molti tratti in comune con il film più famoso della coppia Bogart-Bergman.
Anna Seghers, comunista tedesca di origini ebraiche braccata dalla Gestapo, fugge attraverso il Vecchio Continente nel mentre i suoi libri venivano banditi e bruciati in Germania.
Giunge dopo varie peripezie a Marsiglia in quella parte della Francia “collaborazionista” non ancora occupata dalle truppe naziste, transito obbligato per cercare di fuggire da un Europa sempre più dominata dalla Peste Bruna ed unico porto nel Mediterraneo settentrionale a costituire una ipotetica linea di fuga.
Marsiglia è il vertice di un triangolo rovesciato che s’immerge a cuneo nel mare e in cui da ogni lato spingono i “banditi” dal nuovo ordine europeo.
Con il campo di Millet a poca distanza, aperto già prima dell’arrivo al potere del maresciallo Pétain ed in cui furono rinchiusi paradossalmente in un primo tempo come “soggetti nemici” coloro che fuggivano dalla Germania per il loro credo politico o per le proprie origini “razziali” e in un secondo momento – dal luglio del 1940 – tutti gli “indesiderabili” (come i veterani delle Brigate Internazionali e ebrei espulsi da vari territori), la Marsiglia di “Vichy” non era certo un posto ospitale.
Una città in cui vive una umanità in esubero che può sostare solo se dimostra che può partire, ma che può partire solo se è in grado di vincere nuovamente la propria scommessa con il destino, sta volta non più fuggendo i tentacoli della Croce Uncinata e dei suoi simili ma affrontando la non meno insidiosa macchina burocratica e l’organizzazione del proprio viaggio in mare.
Un universo in cui convive questa massa di sradicati insieme agli abitanti di Massilia a loro volta giunti tempo addietro nella “città fenicia” da approdi più o meno lontani, in una stratificazione che ha sedimentato la sua presenza umana da quando il Mediterraneo è divenuto il motore di una storia millenaria. Questo rapporto diviene una delle chiavi di lettura per potere comprendere la città fino ai nostri giorni nella dissolvenza incrociata tra cronaca e storia, nell’incontro-scontro tra vecchi e nuovi arrivati.
Un affresco in continua evoluzione che ha trovato una sua fissazione anche nel “nostro” immaginario grazie ai romanzi di Izzo, i film di Guédiguian, la musica dei Massilia Sound Systeme e degli IAM.
L’articolarsi di un rapporto di amicizia-inimicizia tra simili che è anche uno dei motori del romanzo, una dialettica che copre uno spettro ampio di compartimenti e che non riguarda solo i rapporti tra chi è in transito ed è stanziale, ma tra i profughi stessi.
Ciascuno di noi – dichiara il protagonista, operaio metalmeccanico tedesco, fuggito prima da un campo di concentramento nazista e poi da un campo francese in cui era stato internato – aveva una buona ragione per non voler cadere nelle mani dei tedeschi.
E questo è ciò che tiene insieme questa varia umanità, in un laboratorio di relazioni che esprimono una solidarietà sprezzante delle proprie conseguenze come un cinismo senza pari.
E anche tra i “francesi” c’è chi non disdegna di fare il delatore per lucrare sulla condizione dei migranti, come chi per aiutarli rischia una sorte non dissimile dai migranti stessi: in mezzo ci sta una immensa zona grigia in cui sotto il consenso apparente al governo collaborazionista già si tessono nell’ombra le reti della futura resistenza al Nemico.
Marsiglia, sarà una città che ben presto – dopo l’arco temporale degli eventi narrati – conoscerà direttamente la ferocia nazista e che proprio negli intrecci umani che si creeranno per sostenere il transito di questa umanità in fuga inizierà a tessere la trama della futura resistenza, a cui il sangue degli stranieri, per citare il titolo di uno degli studi più illustri sul fenomeno, darà un contributo fondamentale.
L’antisemitismo dello stato collaborazionista e la sua politica razziale, oltre alla sua pervicace azione repressiva contro la resistenza, affondavano le proprie radici in quella che non ha torto è stata definita la “Repubblica xenofoba”.
Un regime che rastrellò e fece deportare più di 10.000 ebrei nei campi di concentramento nazisti, di cui più di 2.000 provenienti dal campo dei Milles.
Il cuore di questa città ribelle al potere costituito per vocazione storica come ci ha mirabilmente insegnato Alessi Dell’Umbria nella sua Histoire universelle de Marseille, era al centro dei piani di ristrutturazione urbana del governo di Vichy che recepisce progetti formulati già negli anni ’30, ma «saranno gli artificieri della Wehrmacht, nell’ambito della feroce retata Opération Sultan, a permetterne sbrigativamente la realizzazione con cariche di dinamite che in venti giorni, a partire dal 1 febbraio 1943, radono al suolo 1482 case, distruggendo 15 ettari dell’antico insediamento sul fronte Nord del Vieux-Port.»4
Venne cioè demolita grosso modo parte consistente del teatro in cui si svolgono gli avvenimenti narrati nel romanzo: una foto dell’epoca ci mostra in mezzo a questo panorama irreale di spazio urbano vuoto l’hotel de la Cabre, unico edificio risparmiato dalla distruzione.
Transito parte dall’esperienza autobiografica dell’autrice ma descrive una condizione che accomuna una varia umanità: dai repubblicani spagnoli sfuggiti alla repressione franchista, e passati per le forche caudine dei campi d’internamento della repubblica francese, agli oppositori del regime hitleriano fino alla diaspora ebraica dell’Est.
Bisogna ricordare che tra il 1933 e il 1938 saranno più di 450.000 ebrei di lingua tedesca a lasciare l’Europa centrale nazificata, cioè i nove decimi dell’esilio tedesco nel suo insieme, azzerando di fatto quel milieu culturale ebraico mittel-europeo che aveva spesso coniugato una creazione artistica all’avanguardia con l’impegno politico, mentre i Volksdeutch diventeranno cittadini del Reich a tutti gli effetti, lungo quella linea d’inclusione/esclusione su cui si fondava il “nuovo ordine europeo”.
E il co-protagonista del romanzo a cui il protagonista prende a prestito la propria identità, divenendo l’unico custode del suo segreto e il solo possibile ponte per la salvezza del suo manoscritto incompiuto, è uno scrittore anti-fascista tedesco suicidatosi nella Parigi occupata dai nazisti, che sembra pagare anche da morto il suo impegno intellettuale al fianco della Spagna repubblicana.
Weidel è presente in tutto il racconto come un fantasma che sembra apparire e poi subito dissolversi nei luoghi frequentati dai fantasmi in carne ossa di questa umanità in transito: bar, bistrot, uffici consolari, alberghi malandati, compagnie di navigazione e lungo le strade flagellate dal potente Maestrale.
Alla domanda formulata nel finale del romanzo sui motivi che hanno spinto Weidel a combattere, la risposta è un ritratto delle tante figure dell’esilio politico-intellettuale di cui la Seghers era degna rappresentante: «Per ogni parola. Per ogni frase della sua lingua materna. Si è battuto perché i suoi brevi racconti, talvolta un po’ pazzi, fossero così belli e così semplici che potessero piacere a tutti, ai bambini non meno che agli uomini maturi. E ciò non è forse far qualcosa per il proprio popolo? E se pure talvolta egli, tagliato fuori dai suoi, è stato vinto in questa lotta, la colpa non è sua. Ora si ritira con i suoi racconti che possono aspettare come lui, dieci anni, cento anni.»
Il romanzo si apre con il probabile naufragio di una nave che sembrava essere l’unica speranza di fuga per una serie di individui.
L’affondamento del Montréal – apertura e chiusura del romanzo – sembra essere una specie di archetipo dei costanti anonimi naufragi che hanno fatto divenire il Mare Nostrum un gigantesco cimitero all’aperto.
E sembrano scritte oggi queste parole dell’autrice che fa parlare il protagonista: «in quel periodo tutti avevano un solo desiderio: imbarcarsi. Tutti avevano un solo timore: quello di dover restare. Partire, partire da questo paese in rovina, da questa vita distrutta, da questo pianeta! La gente vi ascolta avidamente se parlate di imbarchi, di navi catturate che non arriveranno mai in porto, di visti comprati e di visti falsificati e di nuovi paesi di transito».
Ed è la storia universale del Mediterraneo che emerge frequentemente nelle pagine del romanzo e che si proietta sull’oggi nel ripetersi di vicende vecchie quanto l’umanità l’ha attraversato nella longue durée di uno spazio in cui la geografia si fa storia.
Transito, infine è un romanzo d’incontri amorosi, ne è uno dei motori narrativi e ne costituisce la cifra essenziale in una ricerca impossibile. L’amore è un sentimento impossibile che non può trovare realizzazione nella precarietà del presente, e lo scambio tra il protagonista e la sua amata è una delle pagine più belle di tutta la narrazione:
Non posso credere che non ti rivedrò più. Non mi vergogno di confessartelo: mi sembra che tu non sia l’ultimo, ma il primo uomo.
Una nuova trasposizione filmica del romanzo ad opera del regista Christian Petzold, che ambienta le vicende nella Marsiglia di oggi, è stata in concorso alla Berlinale 2018 e arriverà nelle nostre sale cinematografiche l’autunno di quest’anno, sperando che ciò sia da stimolo alla ripubblicazione in italiano ( ed in francese) del romanzo della Seghers, di cui è stato di recente ripubblicato il primo romanzo d’esilio.
Per chi, come me ha letto e riletto il romanzo e continua ad intrecciare la sua esistenza a quella di Marsiglia su numerosi piano, non può che immedesimarsi nelle parole dell’introduzione di Christa Wolf al libro: Transito è uno di quei libri che s’innestano dentro la mia vita e che la mia vita non finisce mai di scrivere.
1 Teologia e utopia. Carteggio 1933-1940, W.Benjamin, G. Sholem, Einaudi, Torino 1987
2 http://frontierenews.it/2016/05/quando-la-siria-ospitava-i-rifugiati-europei/
3 Con Brecht, Hans Eisler. Intervista di Hans Bunge. Editori Riuniti, ottobre 1978
4 Marsiglia, icona di modernità urbana?, Daniela De Dominicis, in “Arte e Oltre / Art and Beyond” , rivista trimestrale di arte contemporanea, http://www.unclosed.eu/rubriche/sestante/esplorazioni/89-marsiglia-icona-di-modernita-urbana.html
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