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Elezioni amministrative in Spagna: un colpo al bipartitismo ma niente “rivoluzione”

E’ stato un terremoto annunciato quello causato ieri dalle elezioni amministrative che si sono svolte nello Stato Spagnolo, e che hanno inferto un forte colpo al tradizionale bipartitismo. Se è difficile dire chi abbia vinto – ogni territorio fa storia a sé, e spesso si registrano successi di liste civiche o coalizioni di carattere locale non riconducibili a partiti di carattere nazionale – sicuramente non possono cantare vittoria i due partiti che si sono spartiti il potere dall’inizio degli anni ’80 ad oggi, cioè da quando una parte della classe dirigente franchista decise di andare ad una riforma parziale e indolore del precedente regime per permettere l’ingresso di Madrid nell’Unione Europea e nel Patto Atlantico.
E’ una sconfitta netta, inequivocabile – ed annunciata – quella che ha letteralmente investito il Partito Popolare di Mariano Rajoy, la destra postfranchista al governo, coinvolta in una ondata di scandali e punita dall’elettorato perché promotrice di durissime politiche di tagli e privatizzazioni imposte dall’Unione Europea e dal Fondo Monetario Internazionale. Il partito del premier ha ottenuto ieri solo il 27% dei voti, perdendo circa 10 punti percentuali rispetto alle precedenti amministrative e due milioni e mezzo di voti. Particolarmente cocente la sconfitta nella capitale Madrid, dove il PP era al potere ormai da due decenni.
Ma anche i “socialisti” del Psoe – che nella sua denominazione si ostina a definirsi ‘Operaio’ – non possono certo cantare vittoria, anche se negli ultimi anni hanno potuto godere della comoda posizione di “partito di opposizione”. Ma molti elettori non hanno perdonato al partito che fu di Zapatero le politiche di austerità implementate nei due anni precedenti l’arrivo di Rajoy – in particolare la controriforma del lavoro e i tagli alle pensioni – e la scarsa determinazione dimostrata nell’opposizione al governo più antipopolare degli ultimi decenni con il quale spesso il Psoe ha condiviso molto. E così i socialisti si sono fermati al 25%, perdendo due punti rispetto al 2011 ma recuperando comunque due milioni di voti rispetto alle elezioni europee dello scorso anno.
Oggi la stragrande maggioranza dei media internazionali parlano di exploit di Podemos, ma in realtà le neonate coalizioni elettorali di sinistra e centrosinistra che si sono affermate in molte città non posson essere considerate un calco locale del partito guidato da Pablo Iglesias. Podemos – che ha deciso di non presentarsi alle amministrative – ha infatti dato vita a liste locali con pezzi provenienti da Izquierda Unida e da altri partiti anche consistenti, imbarcando però a volte anche personale politico proveniente dal Partito Socialista in fuga dalla casa madre oltre a esponenti di movimenti di lotta contro l’austerità e i tagli indiscriminati che hanno colpito milioni di lavoratori e cittadini.
Certamente l’affermazione a Barcellona di Barcelona En Comú, la lista guidata da Ada Colau e sostenuta da Podemos, Iniciativa per Catalunya Verds (centrosinistra), Esquerra Unida i Alternativa (sinistra), Equo (centrosinistra) e Procés Constituent – a lungo capofila del radicato e battagliero movimento contro gli sfratti – indica un segnale di tendenza che potrebbe irrompere nelle prossime elezioni politiche generali.
Buon risultato anche a Madrid dove ‘Ahora Madrid’, coalizione guidata dalla 71enne giudice in pensione Manuela Carmena (membro della fondazione Alternativas insieme agli ex premier socialisti Felipe Gonzalez e Zapatero!), è riuscita a piazzarsi al secondo posto alle spalle di un Partito popolare fortemente ridimensionato ma ancora primo. Per governare però Carmena dovrà cercare un’alleanza con i socialisti, arrivati terzi. Anche a Barcellona Colau dovrà ottenere il sostegno di liste minori – oppure dei socialisti – se vorrà guidare la capitale catalana.
Contestando la malagestione della cosa pubblica da parte dei partiti tradizionali, denunciando la corruzione e l’austerità selvaggia, le liste locali in parte frutto della precipitazione politica del movimento degli ‘Indignados’ si sono affermate quasi ovunque (non in Catalogna) a scapito soprattutto della ‘tradizionale’ sinistra rappresentata da Izquierda Unida e dal Partito Comunista Spagnolo che subisce una forte emorragia di voti. Il discorso ‘anticasta’ e ‘nuovista’ di Podemos, adottato dalle liste civiche locali, ha attirato i voti di settori ampi e trasversali. Paradossalmente a farne le spese è stata la ‘sinistra radicale’ spagnola che a volte è stata punita per la scarsa determinazione dimostrata in questi anni contro il governo e a fianco dei movimenti sociali, a volte per spurie e incomprensibili alleanze con i socialisti per il governo di alcune città, a volte semplicemente perché considerata ‘obsoleta’, ‘vecchia’, parte del sistema dei partiti.
Preannunciando la sfida al Partito Popolare alle politiche di novembre, Pablo Iglesias, leader di Podemos, ha definito l’esito del voto amministrativo come «il segno del cambiamento politico» e «l’inizio della fine del partitismo» in Spagna dove si sta vivendo «un cambiamento irreversibile». Ma in realtà il voto di ieri indica oltre ad alcune innegabili luci anche alcune pesanti ombre. 
Intanto, come dicevamo, le liste ‘anticasta’ sono il frutto della coabitazione tra alcuni pezzi dei movimenti antiausterità degli ultimi anni e frange consistenti del personale politico che ha amministrato le città e le regioni negli ultimi decenni applicando spesso misure poco dissimili da quelle implementate dal governo statale o raccomandate dalla troika. Un segnale di discontinuità assai parziale e relativo. 
D’altra parte, se è vero che PP e Psoe hanno riportato il peggior risultato elettorale della loro storia, è anche vero che i partiti della tradizionale alternanza mantengono una posizione centrale nel panorama politico statale.
Il PP – che ha vinto ben dodici delle tredici sfide regionali pur perdendo la maggioranza assoluta quasi ovunque – ha comunque ottenuto 6 milioni di voti e 23 mila consiglieri. A poca distanza il Psoe che con 5 milioni e 600 mila voti ha ottenuto quasi 21 mila consiglieri. Assieme i due partiti sono lontani dal 70-80% dei consensi che raccoglievano solo pochissimi anni fa, ma mantengono comunque il 52% dei voti a livello statale e una quota assai superiore se dal computo si eliminano Catalogna e Paese Basco. Senza parlare del fatto che se da una parte il bipartitismo viene fortemente ridimensionato, dall’altra si afferma una forza di centrodestra liberista come Ciutadanos capace di attirare molti dei voti in fuga dalla destra popolare e dal ‘centrosinistra’ socialista. Il partito di Albert Rivera si è piazzato al quarto posto sia a Madrid che a Barcellona, oltre che in altre importanti città dello stato, costituendo un bacino di riserva per un bipartitismo che dovrà dividere il potere con altre due formazioni – Podemos da una parte e Ciutadanos dall’altra – ma che potrà mantenere tranquillamente il controllo della situazione potendo contare proprio sul sostegno almeno della formazione nata in Catalogna dieci anni fa e recentemente protagonista di un vero e proprio boom elettorale auspicato e pilotato dai media e da alcuni apparati politici e imprenditoriali. Utilizzando in maniera spregiudicata alcuni temi e alcuni linguaggi introdotti nell’agone politico da Iglesias e compagnia, Ciutadanos è riuscita a conquistare elettori di destra ma anche di ‘sinistra’ – passando da 11 consiglieri a 1500 con quasi 1 milione e mezzo di voti – promettendo in realtà una continuità con le politiche indicate dalla troika, in linea con le esigenze dei mercati e delle classi imprenditoriali, anche se in forme meno draconiane e all’interno di un generico discorso sulla ‘meritocrazia’ e la lotta alla corruzione. Il risultato di Ciutadanos permetterà a questo partito liberale di rappresentare l’ago della bilancia della governabilità, riconsegnando al PP o al Psoe l’accesso al potere nelle amministrazioni locali e anche nelle regioni di Madrid, Murcia, La Rioja e Castilla y Leon.
Di fatto al 52% conquistato dall’asse PP-Psoe, occorre aggiungere il 6,5% di Ciutadanos, e quindi le forze continuiste sul piano politico, sociale ed economico raggiungono la soglia del 60% a livello statale. Quota al quale occorre inoltre sommare le formazioni politiche espressione degli interessi delle borghesie catalane e basche. Se in Catalogna il partito nazionalista CIU ha dovuto cedere terreno alla sinistra indipendentista (da segnalare l’exploit della Cup con il 7% e tre consiglieri comunali a Barcellona) e a Barcelona En Comù, nel Paese Basco il risultato del Partito Nazionalista (PNV) è andato oltre le aspettative piazzandosi largamente in testa, mentre la sinistra indipendentista di EH Bildu ha perso terreno anche nella sua storica roccaforte Donostia, dove pure da alcuni anni governa. 
Per tornare al quadro nazionale, se non ci saranno sorprese particolari, è prevedibile che alle prossime elezioni politiche le forze del regime liberista espressione degli obiettivi e degli interessi dell’Unione Europea potranno contare su un 70% dei consensi. Oltretutto alcuni indicatori economici in ripresa dopo il tracollo degli ultimi anni – in parte reali, in parte frutto di una spregiudicata manipolazione da parte della classe politica e dei tecnici sempre a disposizione – potrebbero rafforzare una tendenza continuista di parte di alcuni settori dell’elettorato.
Dalle elezioni di ieri sembra proprio che il sistema politico sia uscito indebolito, ridimensionato, obbligato ad adottare nuove forme ma certamente non sconfitto. 
Certamente l’affermazione delle liste e delle coalizioni nate sull’onda della mobilitazione sociale contro l’austerità degli ultimi anni indica una tendenza importante, mista però ad un evidente tentativo di riciclaggio da parte di ampi settori di ceto politico moderato che si sono messi sulla scia di battaglieri personaggi come Ada Colau ed altri. 

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