Quando il governo Tsipras si costituì, suscitando enorme speranze di cambiamento in tutta Europa, le premesse per la sconfitta c’erano già tutte. La leadership della sinistra ellenica si era infatti imposta dei limiti invalicabili – no alla rottura con l’Ue e all’uscita dall’Eurozona – che gli impedirono di portare alle estreme conseguenze la sfida ingaggiata contro la Troika e l’establishment europeo.
L’idea che l’Unione Europea, la Bce e l’asse franco-tedesco avrebbero accettato di rinegoziare il debito di Atene e di rinunciare all’austerity semplicemente perché in Grecia le elezioni avevano concesso la vittoria ad uno schieramento politico alternativo si rivelò presto una pia e tragica illusione. Paradossalmente, dopo aver traccheggiato nei primi mesi a suon di promesse e piccoli aggiustamenti rispetto ai governi precedenti, l’esecutivo Tsipras chinò la testa proprio dopo aver ricevuto un massiccio sostegno popolare al suo rifiuto di firmare il Terzo Memorandum.
Pochi giorni dopo il referendum del 5 luglio del 2015 il governo Syriza-Anel firmò quella capitolazione ai diktat di Bruxelles e Francoforte che una maggioranza schiacciante del popolo ellenico aveva chiesto di rispedire al mittente. Syriza rivelò l’inconsistenza di un progetto di cambiamento, basato su un europeismo tutto ideologico e fondato sul dogma della ‘riformabilità dell’Ue, che non prevedeva la rottura e si condannava così al fallimento.
Ad accompagnare e preparare il dietrofront di Alexis Tsipras – che oggi si definisce, significativamente, il ‘nuovo Papandreou’ – ci pensò l’armamentario già sperimentato in altri teatri: martellanti campagne stampa allarmistiche, speculazione finanziaria, fuga di capitali, pesanti ingerenze dell’establishment europeo.
Uno scenario che, fatte salve le consistenti differenze, si è rimesso ora all’opera per impedire che la classe dirigente dei partiti indipendentisti moderati rispetti gli impegni presi con la propria base sociale e la tabella di marcia concordata con il parlamento di Barcellona. In queste ore la possibilità che Puigdemont rinunci alla proclamazione dell’indipendenza sull’onda del ricatto economico e delle offerte sottobanco della controparte sta diventando consistente. Il partito della piccola e media borghesia catalana, il PDeCat, ha abbracciato la rivendicazione indipendentista solo recentemente dopo decenni di posizionamento regionalista/autonomista, sull’onda di diversi fattori: la pressione della sinistra indipendentista radicale e della sua crescente egemonia sui settori moderati, l’auge delle associazioni trasversali indipendentiste, la radicalizzazione della piccola borghesia e una generale politicizzazione delle classi popolari causata da anni di crisi economica e di gestione autoritaria e liberista da parte dei vari governi. Il crollo delle condizioni di vita ha prodotto una frattura anche ideologica che ha reso improvvisamente patente a milioni di catalani e catalane il carattere truffaldino di un sistema democratico ridotto a simulacro e di istituzioni incapaci di affrontare e risolvere i soverchianti problemi quotidiani.
In presenza di una rivendicazione nazionale radicata nei secoli e di una dinamica sociale e politica catalana oggettivamente separata da quella spagnola, la nuova consapevolezza e il processo di politicizzazione dei settori popolari dovuta alle mobilitazioni contro l’austerity e contro lo stop di Madrid al nuovo statuto di autonomia del 2006 hanno fatto il resto.
A costo di perdere qualche consistente pezzo e di sostituire Artur Mas, Convergenza Democratica (trasformatasi nel frattempo in PDeCat anche nel tentativo di far dimenticare i numerosi casi di corruzione) ha abbracciato la disobbedienza di massa, la creazione di una legalità alternativa a quella di Madrid e in fin dei conti la costituzione di un contropotere popolare diffuso. Vedere i compassati cittadini catalani resistere alla polizia, votare infischiandone della proibizione di Madrid e violare una legge dopo l’altra, gridando slogan che fino ad un anno fa erano appannaggio esclusivo dei settori più radicali della Cup, la dice lunga sullo stravolgimento degli equilibri politici e ideologici degli ultimi mesi.
Ma quando il gioco si fa duro non è detto che i duri comincino a giocare, soprattutto se hanno molto da perdere – come i settori che guidano il PDeCat – e se “duri” non lo sono affatto o lo sono diventati solo per non essere scavalcati da una dinamica sociale radicalizzante. La prospettiva non remota di finire in carcere o anche solo di essere interdetti dai pubblici uffici e quindi dalla possibilità di ricoprire incarichi di governo, unita ad un ricatto economico di consistenti dimensioni (la massiccia fuga di capitali e di imprese di queste ore dalla Catalogna verso Madrid o Valencia) stanno causando all’interno del gruppo dirigente di Puigdemont serie preoccupazioni. Non è affatto scontato che martedì il President proclami la Repubblica Catalana come previsto, obbedendo così alla Legge di Transitorietà che i suoi deputati hanno votato solo un mese fa.
D’altronde, nonostante Puigdemont abbia sguinzagliato i propri collaboratori in tutta Europa e non solo, tentando di trovare o creare sostenitori della causa catalana dentro i circoli diplomatici, economici e politici, la risposta dell’Unione Europea finora è stata un ‘no’ tondo e secco ai richiami di Barcellona al rispetto della democrazia e della volontà popolare.
Bruxelles non vuole grane, e ha ribadito che ogni soluzione va trovata all’interno del quadro legale tracciato dalla Costituzione spagnola. Quella scritta dagli stessi franchisti nel 1978, difesa da un esercito mai epurato e da un sovrano figlio di quel Juan Carlos di Borbone che fu incoronato in punto di morte dal Caudillo Francisco Franco. Qualche commissario europeo è arrivato al punto di giustificare la brutale repressione delle forze di sicurezza di Madrid che hanno tentato di sabotare il referendum del 1 ottobre a suon di pallottole di gomma e bastonate. Nell’Ue la volontà popolare è un ostacolo, che si manifesti ad Atene o a Barcellona non importa.
Finora, però, né la repressione, né il richiamo all’ordine del sovrano, né il sostegno dell’Ue a Madrid hanno bloccato un movimento popolare catalano che ha imparato ad organizzarsi, a disobbedire, ad esercitare una democrazia radicale ed un conflitto permamente che non spaventa solo le classi dirigenti spagnole ed europee, ma la stessa borghesia catalana.
Una determinazione trasversale che ha spinto il grande capitale catalano, integrato perfettamente in quello spagnolo e continentale, a passare all’azione. Negli ultimi tre giorni decine di importanti imprese catalane, sia del settore produttivo che di quello finanziario, hanno deciso di spostarsi in altri territori dello stato spagnolo, sostenute da un provvedimento che facilita l’operazione prontamente varato dall’esecutivo Rajoy. Da Aguas de Barcelona (gruppo Suez) al Banco Sabadell, dalla Caixa alla sua holding industriale Criteria, da Gas Natural Fenosa a Freixenet, da Catalana Occidente a Eurona, solo per citare solo i casi più eclatanti, hanno deciso di portare la propria sede sociale fuori dalla Catalogna. E’ molto più che un avvertimento alla leadership del partito liberalconservatore catalano, mentre il settore turistico lamenta un consistente calo degli arrivi e delle prenotazioni.
Il President della Generalitat, sostenuto da gran parte del suo partito e da settori consistenti di Esquerra Republicana, sta pensando a come uscirne, martedì, quando al Parlament dovrà comparire davanti al Parlament di Barcellona. L’escamotage per prendere tempo potrebbe manifestarsi in due forme: proclamare formalmente l’indipendenza ma all’interno di un meccanismo che ne sancisca la sospensione in vista dell’apertura di una mediazione con lo stato, oppure differire la proclamazione della Repubblica Catalana ad una data futura prestabilita, per avere nel frattempo l’opportunità di fare dietrofront.
Da parte sua, l’ex President Artur Mas è anche più esplicito quando in un’intervista afferma che “l’agenda indipendentista non prevede l’alterazione del funzionamento economico generale” e che la trasmigrazione a Madrid di molte imprese catalane non può “lasciare indifferenti” gli indipendentisti. “Ogni impresa innanzi tutto deve proteggere la sua esistenza e la sua continuità. Deve capirlo anche la Cup” ha detto l’ex presidente del governo catalano giustificando in qualche modo la decisione dei cda transfughi, anche se poi ha aggiunto: “è sempre meglio che tutto sia tranquillo ma se si pretende che tutto rimanga tranquillo non si farà assolutamente nulla”.
Come prevedibile, l’indipendentismo catalano è di fronte ad un bivio: forzare l’orizzonte fino alla rottura, a costo di ledere i privilegi della grande borghesia locale e di incassarne le relative ripercussioni in termini di repressione e di embargo economico; oppure tirare il freno, rinunciando all’indipendenza e capitalizzando disobbedienza di massa e referendum per contrattare con Madrid – ammesso che lo stato spagnolo sia disponibile – un aumento dell’autogoverno esclusivamente sul piano fiscale ed economico.
Il rischio è quello di una torsione del processo tutta favorevole alle classi dirigenti catalane; una contrattazione riservata alle elites suonerebbe come un ‘tutti a casa’ e disinnescherebbe l’ampia mobilitazione popolare e la radicalizzazione delle classi sociali intermedie all’interno di una sostanziale conferma del quadro esistente.
All’interno del variegato e composito fronte indipendentista agiscono diversi interessi di classe, che finora hanno marciato sostanzialmente uniti. L’unità popolare si è formata e si è rafforzata in conseguenza soprattutto della feroce reazione del governo e delle istituzioni spagnole, indisponibili ad ogni apertura e ad ogni riconoscimento della volontà popolare così caparbiamente espressa da milioni di persone.
Ma di fronte ad uno “scenario greco” e ad un possibile stop impresso alla rottura indipendentista dalle elites catalane, i settori di classe e le forze della sinistra radicale si troveranno davanti alla necessità di imprimere una nuova accelerazione se non vorranno farsi scippare un risultato mai così vicino.
Nei giorni scorsi un sentimento popolare europeista largamente diffuso nella base sociale indipendentista si è scontrato con un vero e proprio muro eretto dalle istituzioni e dall’establishment dell’Ue a difesa della stabilità, dello status quo e quindi dell’inviolabilità dei confini dello stato spagnolo. In moltissimi hanno scoperto, a suon di manganellate e botte, che l’Unione Europea non rappresenta affatto quell’alternativa moderna, tollerante e democratica alla reazionaria monarchia borbonica e post-franchista.
Presto il movimento popolare catalano potrebbe rendersi conto che, come va affermando da tempo la Cup, l’indipendenza non solo serve “per a cambiar-ho tot, no per deixar-ho tot igual” (per cambiare tutto, non per lasciare tutto come sta), ma che per ottenere l’indipendenza occorre rompere non solo con lo Stato Spagnolo ma anche con gli interessi delle elites catalane oltre che con quella vera e propria gabbia di popoli e settori popolari che è l’Unione Europea. Altrimenti Puigdemont potrebbe essere il nuovo Tsipras, e la finestra aperta coraggiosamente dal popolo catalano verso il cambiamento e la trasformazione sociale potrebbe chiudersi e rimanere sbarrata per chissà quanto tempo.
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giorgino
Sicuramemte la base dell’indipendentismo catalano si estende e si radicalizza, nel senso dell’indipendentismo. perché risente della crisi economica, Ma l’indipendentismo non catalano non parla di uscire dall’euro e dai trattati europei. quindi proprio in relazione crescente malessere economico suona un po’ amaro che il pallino sia in mano all’indipendentismo e non ad una contestazione su posizioni di classe. D’ altra parte, in altre parti della Spagna si stanno sviluppando movimenti per fermare l’escalation, ed anche classicamente nazionalisti, anche questi possono intercettare il malessere economico alla base di tutto .Da questo punto di vista, non sarebbe meglio farsi paladini di opzioni più avanzate, invece che rafforzare l’indipendentismo ? Sperare in una evoluzione in un senso di classe o rivoluzionario mi sembra un po’ ingenuo, non è successo col movimento di Tsipras che davvero raccoglieva la classe proletaria, come potrebbe succedere con l’indipendentismo catalano?
Francisco
Sarà, ma è imbarazzante constatare che ancora non s’è capito che da questa situazione non si esce se non con un bagno di sangue. Qui non si tratta di Brexit, moneta propria e cavallo di troia degli USA in Europa, con l’euro non glielo permetteranno mai, e figuriamoci poi se poteva avvenire da sinistra, con Syriza.
Non dimentichiamo che a parte i balcani, Grecia e Spagna nel dopoguerra hanno avuto guerra civile e colpo di stato di stampo fascisti… la memoria è ancora fresca!
La Troika non molla e non mollerà di sicuro, servono altre strategie.
Francesco Santoianni
Finalmente una riflessione sensata sulla Catalogna.
Francesco Santoianni
Ovviamente, mi riferivo al commento di Giorgino