Nella polemica di cui è maestro, alzando i toni solo come certi politici nostrani sanno fare, Recep Tayyip Erdoğan che ora non è un più semplice deputato del Refah Partisi, un tempo perseguitato nel suo islamismo che attaccava il kemalismo né sindaco di Istanbul, ma ha fatto una strabigliante carriera come premier e ora come presidente della Repubblica. Beh, lui a sette giorni da un voto politico dove si gioca il futuro della nazione tramite la mutazione in senso presidenzialista della Costituzione, lancia uno di quegli ‘a fondo’ che l’hanno reso celebre. Non perde il vizio, si dirà. Ma lo fa su un terreno, la libertà di stampa, che gli sta costando una delle critiche maggiori in campo internazionale, assieme all’approccio sui diritti umani e alla persecuzione delle opposizioni politiche, sociali, di costume. La repressione di Gezi Park è stato il passo che ha prodotto uno degli isolamenti più duri che la nazione ricordi, pari soltanto all’epoca dei golpe militari, quando la Turchia veniva tenuta in considerazione solo quale avamposto orientale Nato durante gli anni della Guerra Fredda.
Eppure oltre all’odio, ben condiviso con tanti capi di Stato d’ogni tendenza e collocazione geopolitica, nei confronti dei giornalisti ficcanaso e speculativi il “sultano” si sente piccato perché nella diffusione della notizia del Cumhuriyet sullo smistamento di container (con armi e munizioni) verso il confine siriano, c’è in ballo una vicenda che ha attraversato un intero triennio vissuto pericolosamente da Erdoğan stesso, in qualità di premier, e dal suo fedelissimo ministro degli esteri Davutoğlu che l’ha rimpiazzato alla direzione del governo. Il gioco del sostenere prima il Libero Esercito Siriano poi diffusamente i ribelli anti Asad, e finanche i jihadisti dello Stato Islamico. Un’infinità di costoro, nella versione dei combattenti stranieri sono volati sulle linee aree turche o sono passati per gli scali di Istanbl e dell’Anatolia senza che gli agenti del Mıt facessero un solo controllo. Cosa peraltro non contemplata dagli omologhi agenti francesi e britannici dagli scali del Charles De Gaulle e di Heathrow. Ma tant’è.
La leadership turca non ha mostrato imbarazzi verso le immagini che evidenziavano su confine del Rojava, durante l’assedio jihadista a Kobanȇ conciliaboli fra ufficiali e soldati con la divisa dei reparti di Ankara e uomini coi drappi neri issati sui pick-up provenienti da Raqqa e Mosul. Qualche politologo, apparentemente spinto da pruriti altrettanto polemici, ha lanciato l’ipotesi che non a un “sultanato” bensì a un “califfato” punti l’establishment dell’ Adalet ve Kalkınma Partisi, il partito della Giustizia e dello Sviluppo. Pazza idea? Giocose illazioni da gossip politico? Nei mesi scorsi alcuni comportamenti della formazione di maggioranza sfioravano la goliardia quando mostravano taluni candidati abbardati nei manifesti di propaganda elettorale con copricapo d’antan. Ma che dire della decisione del governo di chiamare il nuovo mega ponte sul Bosforo (una delle meraviglie della Grande Turchia agognata dal programma erdoğaniano e foraggiata dagli imprenditori che lo sostengono) Yavuz Sutan Selim Bridge. In onore del sultano ottomano Selim I che respinse i Safavidi dell’Impero persiano nel 1514. Gli alauiti di casa hanno protestato inutilmente.
Altro che rivisitazione del kemalismo, il desiderio di grandezza islamica è palese. E vista l’aria che tira questa deve rivaleggiare con l’interpretazione di potenza regionale dei sauditi, ridimensionare le pretese dell’Iran sciita, mostrare la forza turca anche agli Al Baghdadi d’oltre confine. Nessuno ha dimenticato le citazioni del poeta Ziya Gökalp che costarono a Erdoğan la galera per incitamento all’odio religioso: “Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati”. Intanto questa battaglia si rivolge al mondo dell’informazione interna che non si piega e si raccoglie in solidarietà dol direttore di Cumhuriyet attaccato dal presidente. Il giornale titola “Io sono responsabile”. Accanto le facce dei giornalisti del quotidiano che s’autoaccusano. Se l’ennesimo scontro cercato da Erdoğan passerà anche attraverso il credo religioso è da vedere. Per ora i giornalisti minacciati rivendicano la propria fede nei confronti della deontologia e della libertà d’espressione.
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